Questa non è una critica e nemmeno una recensione. E' piuttosto una serie di riflessioni di lettura che prende occasione (e l'autore mi perdonerà) da un libro non facile, a tratti petroso e lunare, che domanda a chi lo legge un'attenzione pressoche totale. Un libro che guarda al cosmo insondabile della parola, o meglio a quanto essa possa essere sondabile a piacere, senza arrivare mai - almeno definitivamente - a una meta (cioè, spesso, a dire cosa). E' l'etremo rammarico di ogni poeta. Il limite della poesia sta (o molti sono convinti che stia) nella estrema plasticità del linguaggio che usa per statuto. Qui "limite" lo prendo nella sua accezione meno eroica. E' quello cioè in cui sbatti il naso e ti fermi, guardandoti in giro irrelatamente, e NON quello in cui invece getti il cuore oltre l'ostacolo e scali la montagna come Messner. E' il limite quindi oltre il quale la parola, come un diamante su cui si tenta l'ennesima sfaccettatura, perde la sua funzione e si sbriciola. Può darsi che diventi rappresentazione dell'implosione dell'universo, o della sua dissipazione entropica. E questo universo, esattamente come in un racconto di Asimov, può essere infinitamente grande o infinitamente piccolo, stellare o mentale. Ma la comunicazione con il lettore diventa come quei segnali radio che arrivano dal cosmo molti anni dopo che sono stati generati. C'è necessità di decifrare. Leronni è abile ad esplorare i confini, il limite di cui si parlava. Prende l'evento (termine per ora indefinito) e lo proietta sulla volta del linguaggio, su una griglia dove egli opera una selezione (per dirla con Jakobson) di parole, ne elude, sempre per rimanere in tema, l'equivalenza, nonchè le ricombina in un suo personale sistema metaforico. Per dirla in due parole, l'imperativo sembra essere l'aggiramento della "norma", assumendo qui il termine in senso lato. Mi sembrava di avere colto in questa poesia qualche indizio:
Lo descrivo il colore e s'incaglia
poi di soppiatto rientra nella norma
la tentazione di captarlo lo incarcera
la voglia che lo addita lo annulla
richiamo la pupilla ritiro la tovaglia del senno
lo lascio allora spoglio, il colore
innegabile.
A me pare che Leronni descriva bene il procedimento di come si faccia a liberare poeticamente l'evento (colore, amore o qualsiasi altra cosa ci ispiri) dalla gabbia delle parole. E' abbastanza superfluo parafrasare il testo, nella sua pulita linearità, ma notiamo almeno un paio di cose: il tentativo di afferrare l'evento, di descriverlo, il desiderio di connotarlo dapprima fallisce, rientra nella "norma" delle parole. Unico mezzo per sfuggire alla gabbia, secondo il poeta, è spogliare l'evento, operandone una estrazione dell'essenza, sottraendone la descrizione alla consuetudine, al "senno" (o forse - e qui sta l'equilibrio sul difficile limite - al senso). L' "oggetto" diventa innegabile, il suo "essere" si palesa univoco. E' nella potestà dell'autore stabilire "un margine sufficiente di univocità" (Umberto Eco). Ma l'arte (anche quella di Leronni, nei suoi testi migliori) sta nel capire dove sia e in cosa consista questo margine, almeno quel tanto che basta per "lasciare al lettore l'iniziativa interpretativa" (ancora Eco). Il postfatore Massimo Morasso non è molto distante da questi pensieri, quando parla per questo libro di "carica eversiva della migliore poesia visionaria (...) come sospesa e trattenuta in un limbo infralinguistico che sta a noi lettori, leggendo, di riconoscere e far emergere in pienezza alla luce del senno". Al lettore (leggente) quindi l'onere della prova? Morasso elude la domanda addebitando il dubbio ad altri, al personaggio Fine Letterato che usa come controparte. Non importa. Ma il rischio di una una oscurità dell' "anima" (v. più avanti) del poeta forse permane. Del resto Leronni molto correttamente ci ha avvertiti, nella "Dichiarazione di poetica" posta all'inizio del libro: "Sfilano gli stracci / della verbosità // si essicca il discorso paludato // il fasto retorico / uggiola di finitudine // la ridondanza perde morsi. // Giacciono i fronzoli disattivati / annegano gli orpelli // si staccano / le cornici esornative: // chi parla adesso è asciutto / un corpo scarnificato / evaporato // nient'altro che un'anima". Bene. Vale la pena di sottolineare, magari partendo da questi due esempi, che Leronni non bara mai sul linguaggio. Non bluffa, non persegue l'inusuale lessicale, non compulsa il dizionario. Il fraseggio è quasi sempre limitato a un solo sintagma, per di più quasi sempre "principale", cioè paratattico, e questo provoca da una parte un pregevole effetto, compatto, ritmico, e con una sua musica interna, dall'altra un incedere sibillino, aforistico (o forse sapienzale, come preferisce dire il postfatore). Due parole infine sulle poetiche di Leronni. Di una abbiamo detto, ed è quella principale e fondante: la riduzione del linguaggio, l' "essiccazione" del discorso, il superamento (ma fin dove?) del limite, della "dogana" del significato (prendo il termine dal distico stupendamente emblematico "Quando dico amore è per eludere / la dogana del senso"), come pure del problema (egli accusa) della "meraviglia fatta a pezzi / dalla definizione". L'altra è quella dei "minimi spazi" ("perchè oltre questi minimi spazi / non risuono", afferma), cioè quella che altrove ho chiamato poetica degli interstizi, che va spesso insieme al ripiegamento espressivo, diversa dal minimalismo degli oggetti e dei luoghi, ma piuttosto una poesia "percettiva" orientata sui riverberi degli eventi sulla psiche. E sull'interrogarsi, ovviamente, di come sia possibile sfuggire sulla pagina alla ossessiva e logora verbalizzazione della mente (e forse della cultura che ci portiamo sulle spalle). Va invece respinta la domanda se per Leronni sia indifferente il tema, anche "minimo", purchè serva docilmente alla sua prima poetica. Ovviamente no: Leronni è poeta sufficientemente fine (come dimostrano degli ottimi testi) da non trarre sé stesso nel tranello della metapoesia, cioè del fare versi per parlare di come i versi stessi si fanno. Se la costellazione di Leronni è oscura (un'oscurità da cui, secondo Morasso, il poeta prende lezioni), essa è tuttavia ampiamente popolata: l'amore, l'estetica e l'apparenza, il molteplice, "lo sguardo che vigila sul caso [e] dispone l'ignoto in bella forma", l'inganno dei sensi, la morte come luogo abitato, l' "altalena del mutevole". E naturalmente la natura di cui siamo parte, qui filtrata da un pensiero analitico insonne e a volte impietoso, da uno spirito tutt'altro che "assente". (g.c.)
Questo non è
un giorno più difficile degli altri
questa non è una strada più lunga
questo è il giorno
questa è la strada
e così i fiori sono il fiore
e c'è una sola notte
una sola guerra
la molteplicità è un inganno
e così le forme, i messaggi
c'è unità, unità assoluta
nel mosaico vociante
della morte.
***
Quando dico amore è per eludere
la dogana del senso.
La coscienza
è in attesa delle ombre
più in fondo la giustizia declama
principi inattingibili.
L'amore
con cui scendiamo a patti
l'ardore dei matti
che sognano l'idea
è allora
quel dolore vibratile
quell'arteria che non trova posto
nel corpo.
***
Per alcuni l'estetica
coincide con la religione
per altri è data
dall'osso che marcisce.
Le case intanto
dispongono radici
oltre l'apparenza.
Alcuni
vi dimorano con gesti nitidi
altri le occupano
per caso o frenetici
e abitandole le svuotano.
***
Sospendere il giudizio
la pietà
conformarsi a ciò che regge
la vertigine come scudo
lo sguardo più della parola.
La mano esitante
che aderisce al buio
un giardino intorno
come arsura possibile:
l'incredibile
a rilento
la perplessità incedibile
più che lo spavento.
***
Vedo un prato, lo cingo
con l'occhio
desto insetti di buio
l'erba è sfacciata
le pietre ristagnano.
Zolle più chiare
zolle più scure:
uccelli le radono
mentre fisso le pozze
i canali.
Osservo il prato
a poco a poco lo domino
nella sua totalità:
quel prato è l'anima.
E l'anima infanga.
***
Un universo imprevisto:
il superamento del fenomeno
l'alba ispessita
il maggio che si porta nell'autunno.
Comincio a credere
all'altalena del mutevole
del flusso indistinto
dell'osso fatto d'aria
e più che crederle
ne capto il cigolio
le vado incontro
la vedo.
***
Ecco la sera
è questo il suo nome
un acero il seno, derma viscoso
ecco parla
ed io registro
arrivo da voi, piccole mosche
che trattenete il fiato
arrivo licheni, più gagliarda
dal precedente abbraccio
non posso fermarmi
scivolo per chine taglienti
resisto
per accompagnare
tutto questo legno di ore
ad ardere.
***
Quanto cercare dopo il primo colpo
ci sono altre strade
il pruno le impara
i sassi apprendono
un codice sapiente
invece si insiste
s'insegue il privilegio
inguainato nel buio
si bussa a porte di geranio
con frasi di terra pavida
ci sono altre fronde
le percorre la luce
dritto davanti a noi
o appena indietro
un coro di spasmi
da cui semplicemente attingere.
***
Non ho mai salvato nulla
nulla che non fosse già fisso
nella cupola dell'ardore
e mi sono poi subito perso
nello spazio lancinante.
È difficile digerire
l'abrasione del tempo
sanare la pergola della mente
dopo il contatto
e le forbici
***
Dio dell'abisso, dell'innocenza
smanio per rotte friabili
m'intrido
di ragioni avventizie
cupo come bronzo
attendo che tu scriva
compassato o violento
con l'ora cruda
il sasso
recisa la chiarezza
in quale tabernacolo stavolta?
***
Dove il mondo
può essere captato
in questa imprecisione
della volontà
in questo coraggio disperso
ai margini del bosco
non possiamo
nessuno può
inventare una rapina
che coincida con gli occhi
e questo tempo
il rischio di sprofondarvi
questo tempo senza gloria
questo rispetto spento
che rende illeggibile
l'impronta della guarigione
***
Andiamo verso l'eterno
tutti insieme spero
era il tuo nome che ripetevo
nell'ombra, nella nebbia
ma questo percorso
non sembra condurre
in alcun luogo
se lo guardiamo con attenzione
andiamo verso la semplicità
estrema
di ciò che è complesso
il nome violato non garantisce
più nulla
allora
ridivento mia madre
nella lingua dei puri