Dato Magradze, Giacomo Ponti, Ladolfi Editore 2012
Di SONIA CAPOROSSI
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico…
Giovanni Pascoli
Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo.
Josè Ortega Y Gasset
La mia legge è unire i secoli
Con il fascio delle parole.
Dato Magradze, Giacomo Ponti, p. 59
Mi accingo, in una fredda serata d’inverno, a evadere un ulteriore, importante e pregno rigo che compone la lista di recensioni accumulatesi sulla mia scrivania dalla scorsa estate. Confesso che il primo impulso, dopo aver letto quest’agile libretto di pura e sonante poesia, è quello di buttare giù, poco più che alla rinfusa, una serie di riflessioni critiche intorno ad un’opera che ha del nuovo e dell’antico contemporaneamente: il poemetto Giacomo Ponti (Ladolfi Editore, 2012) di Dato Magradze, poeta georgiano candidato al Nobel nel 2011, attivista in patria per i diritti umani, anima e spirito del proprio paese come letterato e come uomo anche se, purtroppo colpevolmente, ancora poco noto al grande pubblico estero. E tuttavia, nel redigere un’analisi che tenti di attenersi il più possibile al sacro principio ermeneutico della centralità del testo, debbo premettere candidamente che non posso essere d’accordo con chi inquadra quest’opera all’interno di un consolidato e rassicurante genere epico (ma non ho niente in contrario a che Giuliano Ladolfi nella prefazione citi per esso Omero, con intenzioni e significati solo apparentemente uguali, e che il critico Zaza Shatirishvili lo definisca “oratorio epico multigenere”, ovvero ambedue ne diano una definizione correttamente come archetipo e non come precipuo genere letterario). Davide Castiglione, ad esempio, nel suo pezzo per La Critica Letteraria scrive: “Il punto è che la narrazione epica in Giacomo Ponti ha come premessa la convinzione o perfino constatazione – vissuta sulla propria pelle – che il poeta abbia una funzione importante e insostituibile”. Certo, è questa la funzione di un certo tipo di poesia; ma non è punto questa la funzione che nell’epos in quanto testo svolge il poeta, siccome, non essendo genere lirico, la figura del poeta all’interno dell’epos scompare nella terza persona, nella narrazione puramente esterna. Ed è per questo che in realtà non solo non “bastano questi passaggi a esemplificare quanto appena detto”, ma addirittura, i seguenti passaggi, quell’assunto di epicità, lo contraddicono: “Io sto lì, dove c’è l’uragano / E l’angelo è ormai torturato, / è mio dovere lottare contro i mulini a vento” (p. 58), e “La mia legge è unire i secoli / Con il fascio delle parole” (p. 59)”. L’epos non può mai dire io, non è mai così evidentemente lirico, nonostante l’argumentum, nonostante il titanismo balcanico da veritiero, novello Prometeo che traspare da questi versi. Al contrario, l’epos fa della narrazione per il raccontare e della terza persona il proprio differenziale sostanziale. Allora no; più che di epos si tratta, coerentemente, di mythos, con tutte le differenze del caso: la sostanza epifanica aggiunta, assente nell’epos narrativo moderno, che attorno ad una imago mitica, ad una maschera rappresentativa, definisce e stabilizza un sentimento collettivo, la presenza mediata di un significato simbolico di matrice antropologica e contenuto storico, geografico, popolare. Ed ecco allora le imagines sparse in equidistanza nel poemetto: Achille o della Forza, Prometeo che brucia il fuoco della poesia, Ulisse o Dell’Erranza, Socrate o l’Autoapologia, Ercole o del Viaggio. Oppure trattasi, piuttosto (ma a ben vedere non è che lo stesso) di concreta e conclamata poesia civile di ascendenza novecentista e sperimentale, e sperimentale a maggior ragione in quanto la strutturazione varia del testo sottintende un tradizionalismo stilistico evidente, come andremo ad analizzare; una poesia civile tradizionalmente sperimentale, sperimentalmente tradizionale che in genere o è di ascendenza modernista o postmodernista, tertium non datur, e che a mio parere, con buona pace dell’ottima introduzione di Giuliano Ladolfi in cui si citano Lyotard e Derrida, del postmoderno conserva solamente il lascito testamentario improsciuttato di un concettualismo costruttivista imputabile all’occhio spesso prevenuto dei critici. Insomma, non è detto che non si tratti di poesia sperimentale se è comprensibile e piana, allo stesso modo che una poesia di impianto lirico non necessariamente deve essere legata al tradizionalismo di scuola. La sperimentazione, in Magradze, si vede eccome, proprio per lo stesso motivo per il quale occorre smentire di nuovo Castiglione (e Shatirishvili, da cui egli riprende l’aggettivo travisandolo) quando parla di “opera compatta” in quanto non di tale si tratta, bensì di un canzoniere volutamente franto nella forma, vario nel metro e nello stile (basta sfogliarlo!), che di compatto possiede tuttavia l’istanza compositiva sottesa, esplicantesi in un tema, in un problema, in un mitologema di tipo contemporaneamente soggettivo – privato e storico – sociale (primigeniamente attinente al “genere” della poesia civile di stampo pasoliniano, insomma), il lessico piano e disadorno (che genera il malinteso del lirismo tradizionale puro e semplice), e quel senso di ironico e pervasivo dispiacere che prende tutti i grandi cantori dell’archetipica Patria Natale; a maggior ragione per le vicende storiche recenti a cui la Georgia ha dovuto assistere, dal basso della propria malsana giovinezza in quanto repubblica e dall’alto della propria immensa, cultuale dignità.
Non sono neanche completamente d’accordo sull’affermazione di antimodernismo magradziano di cui i critici parlano. Sono varie le caratteristiche del modernismo di stampo eliotiano, ad esempio, che si ritrovano pari pari in Giacomo Ponti, e precisamente la ricerca di nuove tecniche innovative nei confronti della tradizione romantica, di ciò che Benedetto Croce chiamava “il romanticismo sentimentale e morale” come topos; l’attenzione al mythos, al fondo antropologico, alla storia delle religioni (e come potrebbe essere altrimenti, in una cultura come quella georgiana così permeata da una parte di autocefalia cristiana ortodossa e dall’altra di Islam?); il rifiuto del linguaggio tipico del romanticismo e del lirismo fine a se stesso, sentimentale e vago, in direzione di una poesia d’impegno, che laddove esprima emozione, lo fa partendo da un Soggetto vivo e vegeto mai recluso in se stesso, la cui funzione è esemplificativa della compartecipazione e dell’identificazione nei confronti del sentimento collettivo; nonché l’esigenza di realtà, di oggettività, di realismo anche circa l’utilizzo della lingua parlata; il recupero di un certo barocchismo, non certo a livello stilistico o lessicale, che risulta anzi piano e disadorno di default, quanto piuttosto nella costruzione complessiva dell’impalcatura, nella composizione dell’affresco e nella tracciatura dello squadro. Certo, in Giacomo Ponti mancano del tutto alcune altre componenti di crasso e conclamato modernismo, come ad esempio il distacco dell’autore dalla materia trattata, che anzi, è chiaramente ed inevitabilmente, dato l’intento di scrittura, aderente e permeante al protagonista – autore. Attenzione poi ad affermare che in questo poemetto non sia presente l’andamento simbolista: per poterlo dire, occorrerebbe scrivere e parlare georgiano, e non leggere l’opera in traduzione, sulla cui valenza estetica, se non siamo edotti, non si può che fare epokè (ma della quale non mi piacciono, come non piacciono a Castiglione, gli iperbati abusati e i conseguenti arcaismi sintattici).
E’ anche questo il motivo per cui, nell’ottima postfazione ad opera di Zaza Shatirishvili, il recensore pone sì volutamente l’accento sull’elemento neoclassico e tradizionale della poesia di Magradze, ma negli esatti termini che vado a riportare: “in questo contesto la poetica neoclassica di Dato Magradze appare ostentatamente sobria e tradizionale, il che sullo sfondo della frammentazione post – modernistica [della letteratura georgiana del XX secolo, ndr] è manifestamente épatage” (p. 92). E così épatage risulterebbe ad occhi georgiani e quindi accorti, occorre chiedersi, se quel neoclassicismo non risultasse nutrirsi sul fecondo humus culturale della mescolanza di nuovo e d’antico, se non fosse presente all’interno del poemetto, in qualche modo, una sorta di lirismo sperimentale, sommo ossimoro oggigiorno per coloro che non riescono a mandare insieme nemmeno il vecchio adagio del diavolo e dell’acqua santa? Ma andiamo per ordine, e cerchiamo di individuare il senso intrinseco del testo, domandandoci per prima cosa: di quale storia si tratta?
Il fondo atavico della narrazione poetica in Giacomo Ponti, siccome “ponti” in georgiano vuol dire finzione, è normale che sia quasi dappertutto sottinteso: Giacomo Ponti è il poeta che incarna l’alter ego dell’autore, è l’anima atavica di una poesia d’impegno che sbatte la fronte contro la castrazione operata dal Regime, non solo quello della patria originaria, ma di tutti i regimi letterariamente possibili, in un’estensione simbolica che potrebbe adattarsi molto bene anche alla desolante situazione italiana. È infatti l’archetipo dell’avversione alla pseudemocrazia e all’antidemocrazia lo spirito che pervade per intero il poemetto. La Storia con la S maiuscola ha toccato la Georgia per renderla benedetta o maledetta a giorni alterni, e forse è il caso di ricapitolare. Il presidente Shevarnadze, già ministro degli esteri dell’URSS incaricato da Gorbaciov come sostituto di Gromyko, era giunto da buon ultimo ad incarnare agli occhi del popolo georgiano, stanco e deluso, l’ennesimo timoniere del sovietismo becero ma fu costretto a dimettersi per brogli elettorali proprio a causa di quella Rivoluzione delle Rose che nel 2004 portò alla ribalta Saak’ashvili, a sua volta truffatore di voti secondo i giornali internazionali, tossicodipendente secondo fonti russe, invasore ed assassino per gli Osseti, che nell’estate del 2008 ebbero a che fare con lui in seguito ad un’aggressione militare georgiana successivamente ricacciata indietro dalla Russia. Un regime al posto di un altro regime? Questo è, in soldoni, il piano di realtà politico e disperante con cui lo spirito della Georgia contemporanea si trova a dover combattere. Giacomo Ponti Poeta rappresenta quindi l’opposizione ideologica a quanto di marcio vivacchia su una superficie di melma e letame. Ciò che ci deve interessare, adesso, è l’analisi di come si sviluppa tale piano all’interno dell’opera.
In questo senso, risulta facile notare come, a livello formale, Giacomo Ponti possegga a momenti una sorta di cursus epigrammatico, pur dipanandosi spesso all’interno di sezioni di ampio respiro, tipica dei poemetti civili del Pasolini de La religione del mio tempo e Le ceneri di Gramsci. Altre volte, si sviluppa in componimenti lunghi alternati a brevi flashes, persino distici isolati. Altre volte ancora, la sperimentazione si dipana in monostici isolati di contenuto eminentemente prosaico, tali che ricordano, per certi versi molto da vicino, il Pasolini di Trasumanar e Organizzar, solo che lì il poeta di Casarsa introduce un certo Comunicato all’Ansa, e qui, invece, Magradze scrive indirizzi mail:
E – MAIL DEL MIO COMPATRIOTA
E – MAIL DELL’ALTRO MIO COMPATRIOTA
L’argomento si distende nelle scorrerie fludificate di una versificazione piana e semplice, di candida e mai nervosa immediatezza, come già accade nel prologo, laddove si esprime l’anelito alla comunicazione fra due mondi, Oriente ed Occidente, autoescludentesi e monadici per troppi secoli l’uno all’altro:
Cederà uno spazio lo scaffale
A questo Divan orientale – occidentale,
quando il poeta avrà infilato in collana di gocce
la sorgente frantumata sul verde sasso… (p. 21)
E ancora, a p. 42:
Chiamatemi Canale del Bosforo, se gradite,
mi ritengo due fonti di una sola acqua.
Il tema su cui si concentra lo sforzo di significanza del poeta è presto detto: di fronte al “cittadino […] diventato massa” secondo i dettami critici e sociologici di Ortega Y Gasset, di fronte ad un Tribunale che somiglia ai soldati senza volto e senza umanità dipinti da Francisco Goya ne La fucilazione del 3 maggio 1808,
Si avvia il processo,
si accusa Giacomo Ponti,
nostromo di una flottiglia di navi di carta,
si accusano l’abisso e l’acme
dell’anima sua (p. 26).
A p. 55 si esplica il legame che unisce il Poeta Civile alla propria terra natale, la quale a sua volta si prefigura essere contemporaneamente sua nutrice e suo antro di macelleria personale:
Verrà la patria per violentarti;
ti infliggerà le leggi, ammasserà i boia;
verrà la Patria come sacrificale,
ti abbraccerà e sarai tradito.
Giacomo Ponti, colpevole di poesia, di amore, di resistenza all’oppressione e di anelito alla libertà, sembra incarnare compiutamente l’assunto orteghiano del circostanzialismo, quel “io sono io e la mia circostanza e se non salvo questa non salvo neppure me” che rappresenta l’unico atteggiamento valido per accettare e contemporaneamente positivizzare le circostanze storiche, politiche e sociali all’interno delle quali ci si trova a nascere e a vivere e dalle quali siamo irrimediabilmente caratterizzati ed unicizzati come individui:
voi mi accusate di amare il sogno
e la durevole festa del sogno (p. 28)
La tecnica dell’individuazione di un protagonista che incarni compiutamente l’alter ego dell’autore può far pensare all’Alfred Prufrock di Eliot, il cui cognome parlante è “pietra di paragone” e dramatis persona dell’Autore in quanto tale, un po’ come il cognome “Ponti” resta lì a significare l’autoauscultazione della finzione poetica; banale ma dovuto il riferimento agli eteronimi ed a quel Pessoa ortonimo di se stesso che enuncia: “il poeta è un fingitore”. Un altro rimando più o meno evidente in direzione della figura del “poeta resistente” è Brecht. Ma insomma, un imagismo nel doppio fondo poetico di Magradze si palesa ad esempio a p. 32, dove una similitudine schiude i versi al lirismo tradizionale, eppure, subito sotto, il verso subisce un disvelamento estetico di forma e sostanza vicine alla poesia simbolista:
come un puledro segue la madre
così seguivamo la luna notturna
[…]
Vi svelerò il frangersi dell’onda,
che accarezza i corpi con la punta della lingua […]
Altre dichiarazioni di poetica sono sparse davvero ovunque nel testo, come ad esempio a p. 35:
Anche la poesia dorme serenamente
Senza gioielli nel regno del sonno;
per non inquietarla rompo la rima,
affinché non si svegli.
Quasi una professione di prosaicità imagista, di rifiuto dell’orpello fine a se stesso, di reticenza a superare il limite imbellettato del barocchismo degenere e ostentato:
scelgo un nome al logos dormiente,
oppure lo lascio senza metafora.
A maggior ragione perché, sottotrama tracciante in più di un’occasione all’interno del poemetto, incalza l’argomento dell’avvilente panorama poetico nazionale contemporaneo, landa desolata in cui l’uomo è lupo all’altro uomo ed in cui una flottiglia di poetastri patentati dalla vox populi non aspetta altro che un atto di debolezza altrui per compiere l’ennesimo sciacallaggio, umano e letterario (p. 76):
Sul palcoscenico di un teatro provinciale,
-come percezione della Terra Promessa-
Alla rinfusa bramosi per il ruolo di poeta
Ognuno sa dove collocarsi.
“Il narciso assume il ruolo del poeta”, denuncia poco oltre Magradze, ma “la provincia non regge il poeta” e “il cristallo accusa la semplicità”. E quanto risultano eloquenti questi versi oggi, in tempi di magra creativa, superando i ristretti confini balcanici?
In definitiva, non c’è in Giacomo Ponti alcuna ostentazione di pietà, né per se stesso, né per la propria dimensione culturale di riferimento, né tanto meno per la Patria Matrigna. La propria apologia presso i Contemporanei la si compie col supremo sacrificio. Ecco perché il topos del processo di kafkiana memoria ha chiuso il suo ciclo epocale con questo poemetto in cui il Sommo Poeta Civile è insieme condannato e vittima sacrificale: d’ora in poi, signori, opererà solo la mannaia.
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