Giallo. Il giallo di campi sconfinati fu la prima cosa che vide, all’alba di quella nuova era. Dalla collina che sovrastava quel mondo nuovo poteva vedere il grano splendere contro il cielo. E a sud i frutteti del regno che presto sarebbe stato suo. Olivi, meli e vigne senza fine, che avrebbero prodotto sapori delicati, degni di banchetti solo immaginati dai comuni mortali. Sulla collina il Grande Albero degli Antenati sembrava sprigionare colori saturi di vita su quella distesa. Già all’alba il sole bagnava tale abbondanza, tanto era vasta la piana che si offriva alla sua contemplazione. A nord si scorgevano i giganteschi massicci, così alti da essere ancora innevati all’arrivo della primavera degli uomini. Il tempo era fermo. Il sole già caldo. Il mondo sotto di lui gli sembrava piccolo, i suoi occhi potevano vedere fin dove i piedi potevano arrivare, un limite oltre il quale giace un inutile caos. Alle spalle, la dimora dietro cui il sole sarebbe tramontato infinite volte, per risorgere ancora su quel mondo dorato, e verde, e azzurro. Al suo fianco, apparve la figura maestosa che tutto avrebbe potuto.
“Padre, cosa vedo?”
“Tutto quello che c’è.”
“Cosa c’è oltre?”
“Nulla, perché è qui che noi abbiamo il potere.”
“Quale potere?”
“Il potere di creare la vita, e di ricrearla ancora.”
“Perché noi, Padre?”
“Perché tutto quello che vedi è mio, e sarà tuo come è stato di mio Padre.”
Una leggera brezza arrivò, senza svelare la sua direzione. Come un’onda scosse le spighe, una alla volta, poi sfiorò le foglie degli alberi, poi la sua guancia. In un solo momento gli diede il sollievo che cercava, e contemporaneamente gli ricordò quanto presto sarebbe passata. Quell’alito di vento lo fece alzare in volo e percorrere tutta la distesa, in un attimo, fino ai confini e ritorno, a sbirciare quel nulla che giace oltre il grano, al di là dei frutteti. Solo la voce profonda del Padre lo distolse.
“Sei pronto?”
“Per cosa?”
“È domani.”
L’indomani quel mondo sarebbe finito. Quel cosmo su cui padre e figlio avevano il potere sarebbe stato cambiato. Lui lo sapeva, perché proprio a lui sarebbe toccato squassare quella perfezione, quella dolcezza, che una spiga di grano e un albero di mele possiedono senza saperlo. Si chiese ancora il perché, questa volta senza esprimerlo. Si chiese perché chi crea distrugge, per poi ricreare. Perché la vita era vita e poi morte e poi ancora vita. Sarebbe stato così bello tornare l’indomani e vedere ancora quella pace, quella stabilità, disturbata solo da una brezza innocente di tanto in tanto.
“Abbiamo creato questo per distruggerlo?”
“Sì. E per ricrearlo ancora e distruggerlo di nuovo.”
“Sembra perfetto così com’è, Padre.”
“È per questo che lo distruggiamo.”
Il Padre si allontanò, come a comprendere il bisogno del figlio di restare da solo. Quando le spighe smisero di riverire il passaggio del Padre, il figlio si sentì di nuovo in pace. Salì sul Grande Albero, per rimanere a guardare il suo mondo ancora un po’, prima di condannarlo lui stesso a quel cambiamento ciclico che suo Padre gli aveva spiegato tante volte. Lentamente scese la notte, e lui tornò nelle sue stanze, pronto e cosciente di ciò che il suo potere avrebbe compiuto l’indomani.
Ancora il sole raggirò il tempo e, prima ancora che potesse tornare sul suo futuro regno, un suono lo svegliò. Una figura imponente si stagliava davanti a lui, con alle spalle la luce quasi cieca di un’aurora che si arrampicava dietro l’orizzonte. Nella mano una falce, poggiata a terra.
“Padre, sei tu? È già ora?”
“Sì. Prendi la zappa.”
Racconto inedito di Alessandro Magliozzi. All rights reserved