Leila Mascano in esclusiva per VareseNoir
L’imperatore Tiberio è una figura affascinante e sotto alcuni aspetti misteriosa. Era un uomo cupo, solitario, che certo non ebbe biografi benevoli. In lui convivevano enormi contraddizioni: illuminato e superstizioso, crudele e compassionevole, capace di gesti grandiosi e di atti efferati.
Tiberio scelse la meravigliosa isola di Capri quale esilio, e vi costruì alcune sontuose dimore di cui ancor oggi restano le rovine, capaci di affascinarci con la loro architettura e i loro fregi ( qui ancora si vedono tracce del famoso marmo africano, da secoli introvabile, che racchiude frammenti di colore sanguigno, come gocce di sangue, di turchese e di oro )e per la selvaggia bellezza dei luoghi in cui sorgono.
Egli vi dimorò per oltre dieci anni, vissuti in solitudine, e tuttavia ben saldo nel suo reggere con mani sicure il destino di quella Roma lontana la cui eco di tradimenti, di violenze e di sangue lo raggiungeva fin lì.
Il paesaggio caprese è un paesaggio romantico, romantico alla tedesca per intenderci, non nella connotazione sdolcinata che oggi ha preso questa parola, e troppo ovvio ma pur sempre calzante è il paragone tra le dimore imperiali con un nido d’aquila. Bisogna affacciarsi da quel che resta di Villa Jovis o guardarla dal mare per venire colti dalla vertigine di quelle rocce aspre, che si alzano verso il cielo come le cuspidi di una cattedrale, un paesaggio scabro e nudo nonostante la presenza della vegetazione e quella incombente del cielo, che sembra vicinissimo, raggiungibile proseguendo a salire i gradini di quella scala detta fenicia impropriamente, perché qui i Fenici non arrivarono mai.
Questo paesaggio di spietata bellezza guardava l’imperatore perdendosi a seguire il volo dei gabbiani, e certo i suoi pensieri dalla fronte rannuvolata, come cirri si sfilacciavano, impigliandosi in quelle cime rocciose, quasi egli davvero fosse Giove. La notte, quel cielo contemplava, sdraiato sulla sua kline, col fido astrologo Trasillo che per lui interrogava le stelle lucentissime e vicine, tanto da dover alzare il braccio per misurarne davvero l’infinita lontananza. Augusto aveva conosciuto Capri in una sera di luglio, poco prima che Augusto morisse. Desiderò forse anch’egli morirvi, eppure non ebbe questa sorte.
Era giunto a Miseno dopo aver assistito a Circeli ai ludi militari, in compagnia del prefetto Macrone e di Caio Cesare Caligola, suo figlio adottivo. Era sofferente per quella che si chiamava allora pneumonia, e gli fu sconsigliato, quasi impedito, di tornarsene a Capri. Pensava forse al suo serpente, quello che un tempo nutriva di sua mano, come Svetonio racconta, e che un giorno trovò morto, coperto di formiche. Da allora, benché di tempo ne fosse passato, l’idea della morte lo ossessionava. Quella sera, dicevamo, ebbe un malore, e si ritirò nel suo cubicolo. Fu udito da un servo implorare il prefetto della flotta, perché gli allestisse la trireme per tornarsene a Capri. Spirò all’alba. Era il 16 marzo dell’87 d.c. Aveva 78 anni.
Tacito negli Annali e Svetonio nella Vita Tiberii ci raccontano questa morte, che tuttavia rimase misteriosa. Davvero fu dovuta alla malattia, o non piuttosto come si sussurrava fu opera di Macrone, che l’avrebbe soffocato col cuscino per fare cosa grata al giovane Caligola?
L’urna con le sue ceneri fu deposta nel mausoleo della gens Giulia, laddove crediamo che Tiberio avrebbe voluto che esse fossero disperse in quel mare azzurro che tante volte aveva contemplato nella sua sdegnosa solitudine dalle terrazze delle sue ville predilette, Villa Damecuta e Villa Jovis a Capri, dove la sua ombra ancora passeggia nelle notti di luna.
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