Giampietro Berti su Il Giornale fa un bel minestrone di Marx, che non conosce, e poi ne deduce che la teoria del valore-lavoro, che non ha capito per niente, è fallace. In verità, essa è tra le cose di Marx che sono ancora da preservare. “La fallace teoria marxista del valore-lavoro – dice il filosofo – per la quale il lavoro vivo indifferenziato genera ricchezza, ha impedito di capire che il mutamento in atto, dovuto per l’appunto alla centralità del sapere teorico quale fonte primaria della produzione, poneva in secondo piano il lavoro materiale indifferenziato. Non a caso la smentita di tale teoria è venuta con il definitivo annientamento del modello sociale e ideologico rappresentato dal comunismo”. Una confusione di termini e concetti senza nessi logici, oltre che precedenti. La teoria del valore-lavoro di Marx afferma “semplicemente” che il modo di produzione capitalistico si “nutre” della differenza tra lavoro pagato e lavoro estorto (plusvalore assoluto e relativo), senza corrispettivo equivalente tra le parti, inoltre tale plusvalore è variabile e diversamente parcellizzabile tra i protagonisti del processo (proprietari dei mezzi di produzione e lavoratori subordinati), in base a contingenti rapporti di forza. Parlare di ricchezza senza specificare altro è un trucco da prestigiatori falliti. Quale ricchezza, in particolare? Come scrive Gianfranco La Grassa : “Lo scambio delle merci quali equivalenti (in media) nasconde la fondamentale (sottostante) produzione, e appropriazione capitalistica, del plusvalore che è pluslavoro; ancor più decisiva è però la riproduzione del rapporto durante lo svolgimento del processo produttivo, da cui escono il capitalista, arricchito dal profitto (plusvalore), e l’operaio in quanto semplice possessore della sua forza lavoro pronta per essere rivenduta, dando così inizio ad un nuovo ciclo dello stesso processo”. In secondo luogo, se il profitto (forse è questa la ricchezza che ha in mente Berti? Tiro ad indovinare come lui tira a filosofare), in quanto plusvalore, non viene da lì ci vuole spiegare Berti da dove deriva? Non mi dica dal mercato perché, si rilegga il passo lagrassiano di sopra, questo è solo il luogo in cui i valori si realizzano e di certo non sbucano dal nulla, meramente scambiando merci contro il loro equivalente generale. In secondo luogo, il sapere teorico è certamente fonte primaria di qualsiasi processo umano, dal quale evidentemente è escluso Berti che riesce a parlare senza pensare. Mettere ancora una volta in bocca a Marx la frase che il lavoro (indifferenziato? Non direi, è l’energia erogata dalla forza lavoro a poter essere indifferenziata) sia l’unica cosa che valga, laddove il Moro dava altrettanta importanza ai macchinari e alle scoperte tecnologiche, è la solita mistificazione da apprendista stregone che non fa nemmeno un piccolo sforzo di comprensione per andare oltre i propri pregiudizi. Per Marx il sapere cognitivo (e la tecnologia che da esso scaturisce con applicazioni pratiche) è decisiva per sviluppare al massimo le forze produttive della società. Marx però sa bene che questa propulsione verso il progresso materiale della società non viene da un atto di amore del capitalista nei confronti del lavoratore ma dalla necessità di incrementare il plusvalore, la forma astratta del pluslavoro, alfine di continuare ad investire e ad arricchire. Mica tutto male, difatti oggi viviamo meglio di ieri. Infine, il modello sociale ed ideologico (il socialismo reale) non ha nulla a che vedere, nei fatti, con il modello teorico che l’avrebbe ispirato. Ci si può ispirare a Dio, immedesimarsi in Egli, Egregio prof. Berti, ma non per questo si finisce per essere Lui, nonostante gli sforzi sovraumani (è il caso di dirlo) profusi nel raggiungimento dell’obiettivo, che se è impossibile resta tale. Il comunismo era appunto impossibile e non si è realizzato. Non per la teoria del valore-lavoro, che peraltro cercava di formulare una spiegazione del funzionamento dei rapporti sociali capitalistici e dello sfruttamento (che non significa povertà irrimediabile a cui dovevano essere condannate le classi non proprietarie, le quali, infatti, spesso se la passano benissimo sotto il capitale e meglio che nelle epoche passate, checché ne dica il pauperista Fusaro), ma a causa del fatto che non si è formata, nel processo produttivo capitalistico, quella classe allargata, dall’ingegnere al giornaliero (il c.d. General Intellect), di trapasso intermodale e di controllo effettivo e totale del processo in questione, dal quale i proprietari sarebbero stati espulsi. Punto. Marx ha errato in questa previsione, non nella teoria del valore-lavoro che seppur parziale (La Grassa ci ha spiegato perché, con il 2° disvelamento della teoria degli agenti strategici ecc. ecc.) resta determinante, come dire che senza Galilei non avremmo avuto Newton e senza quest’ultimo non ci sarebbe stato Einstein. Mentre con o senza il di Berti (pensiero) non noteremmo grosse differenze.