Giancarlo Consonni, Chiarìe

Creato il 09 aprile 2011 da Fabry2010

Inizio

Ignare primule
per ogni dove
anche non viste,
le gemme dei ciliegi
ancora doloranti di gonfiore.

*

Cutrettola

Balla la cutrettola
gialla, giallissima
sul mio cuore
vestito di tramontana.

*

Certame

Peri peschi susini
ciliegi
lame di giaggioli
a cascata i biancospini.

Ma è del mandorlo
il miglior inizio
suo il certame di primavera.

*

Da dove

Da dove ai nontiscordardimé
il trasparire?
Alle viole
il promettere segreti?

E le margherite,
le immacolate e le altre,
il segno maldestro
del primo rossetto?

*

Quale cenno

Quale cenno
o schiocco di merlo
ha trapuntato
gli ippocastani regali?

È primavera
mai che sia pronto.

*

Chiarìe

Preme la luce
come a un confessionale.

Dietro la persiana chiusa
il geranio
si svaga di chiarìe.

*

Biancori

Sulla spiaggia riservata
le suorine
mostrano biancori
stupefatti.

Tocca al maestrale
togliere d’imbarazzo
il mare.

*

Pettirosso

Di tutte le visite
la più gradita
è il pettirosso,
fulvo tra gl’iris.

*

Tiglio

Avvitati
in brevi giravolte
i semi del tiglio
giocano a lasciarsi cadere.

Angeli bambini
toccano terra senza rumore.

*

Treno

Nebbia.
Il treno l’attraversa
come avesse una certezza.

* * *

Nota
di Giorgio Morale

E’ una vera gioia questo Chiarìe, il libretto di Giancarlo Consonni appena pubblicato, in copie limitate e con la copertina curata dal pittore Gianni Bolis, dalle edizioni fuoridalcoro: in cui alla intensità della poesia si unisce il gusto e la sapienza di un fare non alienato e non mercificato che rendono l’oggetto-libro davvero unico e prezioso.

Queste Chiarìe illuminano soprattutto la natura primaverile nel suo farsi, i giorni dell’”inizio” in cui anche negli angoli più nascosti tutto è vita luce e movimento e dove non succede “mai che sia pronto“. Una natura che non è fatta di “monti et piagge / et fiumi et selve“, generica cornice di un io che occupi tutto lo spazio, ma di nitidi “peschi susini / ciliegi / lame di giaggioli“, primule, nontiscordardimé, viole, margherite, ippocastani, gerani, iris, tigli, tutti colti attraverso l’individuazione di un particolare appropriatissimo, per lo più un modo d’essere o un’azione.

La precisione quasi botanica ma mai scientistica dello sguardo e della denominazione non ne sminuisce la forza poetica ed evocativa. Dice al contrario l’intimità del poeta con la natura di cui conosce i cicli, i tempi, i nomi. Per il lettore può essere una scoperta leggere come si posa il pettirosso o come cadono le foglie del tiglio, eppure io non parlerei di epifanie. Per il poeta non si tratta di una rivelazione improvvisa, ma del frutto della sapienza del vissuto.

Con la natura vicinanza, quindi, e convivenza, ma non parlerei di uno spirito panico o panteistico. Il poeta sa, sente, “le gemme dei ciliegi / ancora doloranti di gonfiore“. L’intimità è viva e consolidata, ma senza fusioni o confusioni, senza che mai cessi la differenza dello sguardo e della voce del poeta che lo dice. E’ ciò che, nonostante il linguaggio modernissimo di queste poesie, le accomuna a quelle dei grandi cantori della natura, dagli antichi fino a Tjutcev e a Pasternak.



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