Giancarlo toniutti

Creato il 19 maggio 2015 da The New Noise @TheNewNoiseIt

Il “passato” torna sempre, questo potrebbe essere uno degli assunti dal quale ripartire per una storia possibile su Giancarlo Toniutti. Uno studioso, prima che musicista, che ha ricevuto le dovute attenzioni forse più all’estero che da noi, per la verità, anche la ristampa de La Mutazione lo dimostra ampiamente. Visto che siamo dei curiosi innati, lo abbiamo contattato, ed è stato un vero piacere constatare che si è trattato di un incontro (solo telematico) particolarmente interessante. Insomma, leggetevi con attenzione quest’intervista della quale andiamo particolarmente fieri.

Maurizio Inchingoli: Ciao Giancarlo. Il pretesto per quest’intervista nasce dalla riedizione de La Mutazione, questa volta se n’è occupato Oren Ambarchi in persona per la sua Black Truffle Records, in precedenza se ne prese carico, era il 2009, l’austriaca Klanggalerie. Perché, secondo te, tutto questo interesse ancora oggi verso quell’album?

Giancarlo Toniutti: Temo sia molto complicato per me avere una opinione che sia solo nel merito della musica de La Mutazione. Come sempre, per un autore c’è un doppio rivestimento spazio-temporale. Quello più o meno obiettivo del teorico e del ricercatore, a cui però si sovrappone quello del soggetto che ha realizzato l’opera, con tutte le caratteristiche mnemoniche locali (la memoria degli atti, delle motivazioni, dei percorsi fisici e materiali attraverso i quali si giunge al punto finale formale), e quelle storiche che si sono sviluppate ed evolute nel tempo (la distanza si misura su scala logaritmica, anche laddove sia oggettivamente ridotta). I due strati sono così intrecciati che a parlarne si rischia di essere presuntuosi o troppo ingenui, anche verso se stessi. Provando, come spesso devo fare, a distaccarmi da tutto questo groviglio, posso dire che c’è un lato che probabilmente appartiene alle biografie degli editori, alla loro storia, come si è andata costruendo, coi suoi falsi miti e le sue vere manifestazioni. Su questo lato credo che il semplice fatto che il disco apparve su Broken Flag, e che Broken Flag sia divenuta nel corso del tempo, a torto o a ragione, emblematica di un’epoca e dei suoi contenuti, ha fatto sì che il disco possedesse un’attrazione maggiore di quella che ritengo avrebbe, fosse apparso su altre etichette o fosse stato autoprodotto. Il che è persino più interessante, in quanto, nei fatti, il disco è stato sostanzialmente prodotto da me (dal punto di vista produttivo, economicamente parlando, l’album l’ho finanziato io al 75% circa), ma ovvio che appaia come lavoro per Broken Flag. L’altro lato però riguarda la musica. Il disco indubbiamente, anche nonostante alcune sue componenti ingenue, possiede un carattere fortemente indipendente, nel panorama delle musiche di quell’epoca, e ancor più rispetto a quelle apparse su Broken Flag. Come raccontato in “The Research Of A Polynoise” (testo apparso nell’edizione per Klanggalerie), l’album appartiene ad una sorta di coagulo, di linea di convergenza e sorgenza, tra le sperimentazioni delle avanguardie tedesche dei primi anni Settanta e l’emersione della musica sperimentale post-industriale agli inizi degli anni Ottanta. Con le naturali ascendenze, anche indirette, nella musica colta, concreta, e nel futurismo sonoro. E nonostante questo, potremmo dire, costituisce un’eccezione. Come detto, non dovrei essere io ad affermarlo, ma questo spessore nell’opera si avverte immediatamente. Mancando tutti quegli stereotipi che in breve si erano già formati all’epoca (aggressione sonora, ricaduta all’interno di un regime di drammatizzazione e teatralità tipico del rock’n’roll, semplificazione e riduttivismo strutturale, e forme semiotiche chiuse), la musica de “La Mutazione” si situa in qualche misura fuori dall’asse sincronico, sfugge alle chiavi di lettura “contemporanee”, e questo ha probabilmente consentito di poter rimanere un campo attrattore dopo trent’anni.

Tommaso Gorelli: La storia del disco è curiosa. L’etichetta Aeon si propose per pubblicare un tuo lavoro, quando ricevette il nastro però non sembrò soddisfatta. Questo ti diede modo di continuare a lavorarci su, soprattutto a fronte dei tuoi nuovi interessi verso musica e matematica. Insomma la Aeon ti ha fatto un favore…

Probabilmente sì. La prima versione, quella che avevo inviato alla Aeon, conteneva molta meno “materia” sonora, per così dire. Venne rifiutata in quanto “troppo simile ai lavori precedenti”. Il che in sé era solo parzialmente vero, ma sicuramente quel giudizio mi ha consentito di porre del tempo tra la prima stesura, dell’estate del 1983, e la seconda definitiva che è della primavera del 1984. In quei mesi c’è stata una naturale crescita come compositore, nel confronto con le musiche emergenti (i vari aspetti verso cui mi stavo allora accostando) e con studi morfologici in sviluppo, che ha portato a riconsiderare l’opera e a dotarla di una stratificazione maggiore, sia sul piano delle superfici dinamiche, che su quello delle articolazioni locali. Gli strati aggiuntivi hanno operato soprattutto sulla disgregazione di una sorta di linearità strutturale della prima versione, innestando, segnatamente, una serie di materiali concreti, ed aprendo il campo mesostrutturale nei confronti di geometrie di rango superiore. Non s’è trattato tanto di renderlo più complesso (anche se lo è, evidentemente), ma più articolato. Di fornire alla struttura cardine della prima versione un allargamento fattoriale verso il materico, che ne completasse il ciclo dinamico.

Tommaso Gorelli: Qualche anno fa hai partecipato alla rimpatriata della Broken Flag. Il lupo perde il pelo ma non il vizio?

Il lupo perdona le bretelle! Comunque è vero. L’invito è arrivato direttamente da Gary Mundy. Con tutte le riserve del caso ho voluto parteciparvi. La riserve erano dettate (e sono anche state confermate) dal fatto che Broken Flag ha rappresentato, all’epoca, sicuramente un moto di grande stimolo verso la creazione di nuove musiche ed esperienze, ma si è anche contraddistinta per una certa rigidità (e dunque fragilità) degli schemi compositivi, nella maggior parte degli artisti pubblicati, e per uno scarso, a mio parere, livello generale teorico della musica, soprattutto nella sua seconda fase. Questo si è ben osservato durante il festival, nel quale poche sono state le presenze effettivamente di livello (a mio parere su tutti The New Blockaders). Detto ciò, la mia accettazione, e quindi partecipazione, è avvenuta principalmente per due ragioni. La prima per omaggiare Gary Mundy e la sua iniziativa in quanto tale (al di là dei suddetti giudizi nel merito musicale), e la seconda per la libertà che Mundy ha sempre proclamato, e perfettamente realizzato, nelle sue produzioni. Non ha posto mai alcun vincolo alla mia partecipazione, né da un punto di vista tematico, né da quello dell’esecuzione. Ho così potuto realizzare, a Londra, un mio concerto quadrifonico in assoluta autonomia compositiva e progettuale, ulteriormente distante dalle loro attuali proposte. Il che è nuovamente un suo merito (e dell’intera organizzazione).

Maurizio Inchingoli: Hai collaborato con, tra gli altri, Andrew Chalk, Siegmar Friecke e Conrad Schnitzler. Come nascevano, e cosa ti hanno lasciato tutti questi incontri? Mi piace ricordare anche il coinvolgimento di un vero outsider come Enrico Piva (Amok) per le foto su diversi tuoi lavori.

Le collaborazioni, tutte le collaborazioni musicali nascono, nel mio caso, con ragioni specifiche. Anche se tutte si sono palesate a partire da un invito ricevuto, ho cercato di sostanziarle seguendo un progetto unitario e condiviso. Non è andata sempre così, però. Solo nel caso del lavoro con Siegmar Fricke, l’opera possiede una assoluta unitarietà di intenti, tra progetto, concetto, ricerca e realizzazione, e questo perché sostanzialmente si tratta di un mio lavoro (l’ideazione, la composizione, buona parte delle registrazioni, l’articolazione e il mixaggio finale di tutta la musica sono miei). Siegmar ha ottimamente operato come collaboratore esterno, fornendo, sulla base del programma di lavoro, una quota (la sua) delle registrazioni, scegliendo lui le specifiche fonti sonore e operando liberamente seppure in accordo con il piano di lavoro. Sono dunque portato a ritenerlo un mio progetto. Il lavoro con Andrew Chalk avrebbe potuto possedere le stesse caratteristiche di unità se Andrew fosse stato più “ligio”, se posso permettermi di dire così, a ciò che avevamo concordato come linea guida: l’utilizzo di cavi metallici in ambiente, quale fonte sonora primaria. Il percorso è stato un po’ più complesso, e alla fine le due facciate del disco rispecchiano la lettura che ognuno di noi ha dato all’idea iniziale. La mia facciata a dispiegare cavi tesi su silenzi ambientali, quella di Andrew che è invece progressivamente scivolata verso una fase stazionaria e satura. Con Schnitzler il lavoro è stato molto più frastagliato. Impossibile rinchiudere Conrad in sistemi o progetti di ordine teorico. La sua altissima anarchia poteva essere solo orientata. Di conseguenza il lavoro pratico è stato molto involuto, con fasi diverse, e la necessità da parte mia di mantenere l’intelaiatura su di un terreno omogeneo e coerente per quanto possibile. Alla fine Conrad stesso ha voluto che io me ne occupassi “dirigendola”, come lui amava dire. Il che è risultato nel fatto che il disco è costituito da un grado dispari di interventi sonori, con l’articolazione strutturale, nel solo vincolo di configurazioni brevilinee, che è stata realizzata interamente da me. La fase collaborativa, perciò, non è esattamente il mio campo preferenziale. Si tende a creare una fatica che nasce da una mia necessità di ancorare ogni opera ad un lavoro di ricerca circoscritto, legato a specifici profili materici, fonti sonore e loro articolazioni. Non è probabilmente semplice “chiedere” agli altri di seguirti su questi percorsi così caratterizzati. In questo periodo però ho trovato in James Wyness un’ottima compagnia. Ci troviamo su di un piano teoretico e compositivo abbastanza prossimo, ed abbiamo iniziato a progettare diversi lavori assieme. Oltre al fatto che stiamo scrivendo un libro a due (o quattro?) mani (un dialogo intorno alla musica da un punto di vista teoretico), il progetto più notevole si chiama “The Canalisation Project” ed è un’opera dal vivo molto complessa, che concerne l’esposizione pubblica dell’intero processo compositivo di un lavoro musicale. Stiamo cercando occasioni per presentarla.
Per ciò che riguarda Enrico Piva: qui il discorso potrebbe farsi molto lungo. Con Piva ho avuto uno scambio artistico, personale e di ricerca molto intenso, durato oltre quindici anni, fino a poco prima della sua scomparsa. Le piccole partecipazioni ai miei lavori da parte sua, che rivestono solo un aspetto locale, sono quasi più un omaggio costante che ho voluto frequentemente riservare alla sua arte. Oggi tutto questo, a distanza di molti anni dalla morte, si completerà con la realizzazione di una antologia monumentale dedicata alla sua opera, che sto curando assieme ad altre persone (Vittore Baroni, ad esempio), e che spero possa vedere la luce verso l’inizio del 2016.

Tommaso Gorelli: Giancarlo Toniutti compositore, ma anche ricercatore in campi come linguistica e antropologia. In merito alla linguistica, quanto è stato determinante l’essere cresciuto in una regione, diciamo diatopicamente parlando, complessa come il Friuli Venezia Giulia?

Penso che essere nato qui mi abbia dato una spontanea marginalità, che da un lato mi ha preservato dalle assillanti correnti “à la page”, che spazzano le aree centrali, donandomi una estraneità che si è tradotta in una altrettanto spontanea differenza. E dall’altro mi ha consentito di riconoscere meglio la complessità del mondo. Stare al confine tra diverse nazioni, con frontiere linguistiche anche interne alla regione stessa, e con tutte le geovarianti e gli adstrati che vi si trovano, mi ha probabilmente condotto, anche in modo non necessariamente volontario, a saper pesare appieno il valore che risiede nella distanza dal centro, supposto motore. La varietà dunque, come reale motore, mi ha portato a ricercare anche nelle marginalità linguistiche (aree come la Siberia e il Caucaso ad esempio, zone di mia elezione) il nocciolo degli sviluppi di “possibili” solitamente trascurati, e a comprendere, anche attraverso l’analisi linguistica, che comporta sempre, come contrappeso e ordito, gli aspetti antropologici, culturali, cosmogonici e così via, la pregnanza della differenziazione e il portato semantico strutturale che questa implica al fine della comprensione della realtà. Ogni mondo, linguistico, culturale, antropologico, sistematizza la realtà secondo schemi relativi ed instabili “regionali” (secondo la dicitura di Husserl, ripresa da Jean Petitot), e ciò rende provvisorio, e per questo fortemente significativo, lo stesso nostro impianto concettuale, che deve dunque essere costantemente tracciato e ridefinito per sapersi adattare alle mutazioni naturali in continuo corso.

Tommaso Gorelli: In *KO/USK- hai voluto dare ai tuoi studi sulla morfologia una ricaduta nell’ambito della, diciamo, geomorfologia. È un lavoro che odora davvero di terra… come queste pietre del San Michele mi viene da dire. Tra l’altro quello verso le pietre è un interesse che, parallelamente alla tua attività musicale, hai sempre avuto o sbaglio? Mi riferisco a “O Nekotoryx Struktury” per nastro magnetico e due pietre. Tutto questo ha inoltre a che vedere con la tua “Strategia Sculturale”?

… O anche “rocce di ultradenso vuoto”, oppure “rocce-rovi di subsuoni a vuoto” (Zanzotto, Crode del Pedrè, prima e seconda versione). *KO/USK- nasce da un’esigenza, quella di investigare la natura di fonti sonore a scarsa o nulla risonanza, e la loro capacità morfogenetica. Dopo aver lavorato per anni con materiali altamente risonanti, dai metalli alle corde, sentivo la necessità di dover conoscere come si sarebbero comportati elementi sonori sostanzialmente inerti, per quanto riguarda la loro natura oscillatoria. Ho pensato dunque che le pietre fossero un buon materiale, sottostimando in parte, in partenza, la loro intrinseca capacità di vibrazione (non sto parlando di energie sottili di famigerati cristalli, ma di una reale capacità dei nodi risonanti, ad esempio nelle lastre in pietra, marmi, basalti, marne). L’indagine mi ha condotto ad unire a questo progetto delle ricerche, che sono sfociate poi in studi a largo spettro intorno alle geografie (linguistiche, morfologiche, antropiche, etc.). Che esistesse un interesse pregresso nei confronti delle pietre, che appaiono sì in “O Nekotoryx Struktury”, ma anche in “Reseca Litolalìa” del 1986 (pubblicato sulla compilation “Le Petit Mort’”), usate anche precedentemente seppur in modi meno esclusivi, deriva da una naturale ricerca nei confronti delle fonti sonore, soprattutto quelle idiofoniche, che viene da lontano. E che continua tuttora. La particolarità di *KO/USK- è la sua uniformità timbro-dinamica, vale a dire, il fatto di utilizzare solamente pietre quali fonti sonore, senza alcun tipo di trattamento elettronico (che non fosse l’uso, anche discreto, del nastro magnetico), senza per questo cedere ad alcun genere di esito figurativo o aneddotico, senza cioè prescindere dal fatto di realizzare un’opera sonora assolutamente organica. Le pietre diventano quindi “solamente” le sorgenti (in tutti i sensi) del lavoro, e non un emblema di qualche altra narrazione. Ed è proprio da lì che il lavoro si dispiega puntuale.
Per quanto riguarda la “Strategia Sculturale” l’unica linea di contatto, che però non è una linea banale, è data dal fatto che si tratta sempre di riconoscere ai materiali una natura morfogenetica. Si tratta dunque, come uso dire, di riconoscere dei diritti ai materiali stessi. Sono essi che dettano, all’interno della mia costruzione, le linee di crescita, in un caso sonora, nell’altro plastica.

Tommaso Gorelli: Nella tua pratica musicale hai adottato definitivamente lo stile delle cosiddette spazializzazioni, o proiezioni acusmatiche multicanale. Perché le trovi così adatte? Io ad esempio ho chiamato le tue opere recenti “diorami acusmatici”, forse un termine azzardato.

Nella mia pratica dal vivo, e stiamo parlando dei concerti, ho adottato la quadrifonia come sistema più adatto per rendere palpabile la materia sonora, in un atto che pretende di coinvolgere le persone dentro uno spazio in movimento temporale. Questo a partire dal 2007, se trattiamo questa forma di concerti. Questi nascono come esigenza di operare ben oltre la configurazione teatrale classica, fondamentalmente di stampo emiciclico, che è quella diventata d’uso prevalente nella musica occidentale (ma non esclusivamente). Nelle mie intenzioni, dunque, l’ascoltatore deve porsi non più di fronte ad uno spettacolo del suono, ma all’interno di una morfologia sonora. Il sistema quadrifonico (ma si possono proporre anche altri rapporti), consente di definire in modo semplice uno spazio euclideo dentro al quale opera cinematicamente il suono. L’ascoltatore assume un ruolo attivo, libero di muoversi ed agire nello spazio per trovare la propria quadratura necessaria all’ascolto (che è dinamica, lungo l’asse del tempo). Questo permette di conoscere il suono non più come rappresentazione piana di una superficie in movimento (una traiettoria definita e ordinata dall’esecutore all’ascoltatore), ma come generazione di un solido in moto continuo, un fibrato di traiettorie variabili, con più punti di tangenza e articolazione della materia stessa. Se consideriamo, invece, quelle opere da me definite siti sonori (che ho iniziato a realizzare nel 1998), questi sono dei veri propri atti definitori dello spazio attraverso la materia sonora. La loro natura multicanale dunque non è una scomposizione dell’opera in elementi discreti dispersi nello spazio di ascolto, come avviene per le installazioni tradizionali (o per l’acusmatica), ma corrisponde invece alla somma topologica dell’esistenza di più sorgenti sonore indipendenti che si incontrano in uno spazio, precedentemente indefinito, che sorge proprio con l’innesco di questa interazione su più piani. Dal conflitto spazio-strutturale l’opera ricava la sua natura, e si definisce assistendo ad una progressiva decimazione dell’asse del tempo, che non è più un asse fisso ed immobile ma diventa anch’esso una variabile dell’insieme dato. In questa maniera si passa dallo spazio, inteso come luogo substrato illimitato, ad uno spazio, inteso come estensione localizzata di carattere qualitativo.
Detto tutto questo devo aggiungere, quindi, che nei fatti hai azzardato nel definire i miei lavori come “diorami acusmatici” per due ordini di ragioni. Il primo è che i diorami sono proiezioni, rappresentazioni scalari, quindi simulazioni di ambienti, che cercano di fornire un’impressione di una realtà ad essi esterna. Il mio lavoro invece consiste di morfologie sonore costituite, atti reali della materia sonora, non vi è alcuna rappresentazione, bensì vere e proprie realtà morfodinamiche del suono organizzato. Vi passa la medesima differenza che passa tra una cartolina e un passo montano. Secondariamente, il mio lavoro è piuttosto distante dai principi dell’acusmatica, in quanto scuola musicale. Nei confronti della scuola acusmatica nutro diversi dubbi teoretici. Distante, poiché non si adatta alla creazione di un ambiente sonoro o come si usa dire, con pessimo termine a mio parere, alla creazione di soundscapes. Non opera, come dicevo, per simulazione o per rappresentazione. Non è una messa in scena, per quanto efficace (seppur drammatizzata), ma appunto una vera e propria attualizzazione di realtà sonore.

Maurizio Inchingoli e Tommaso Gorelli: In un piccolo passaggio del tuo intervento nel libro/omaggio ad Alvise Vidolin, “60 dB. La Scuola Veneziana Di Musica Elettronica”, attribuisci ai Conservatori uno stato di paludamento, definendoli troppo spesso miopi nei confronti della realtà. Dovrebbero cambiare le coscienze attorno a questa istituzione? Ad esempio anche Fausto Romitelli, uno senz’altro più coinvolto nell’ambiente accademico, denunciava questo stato di cose. Ti sei mai confrontato con l’opera del compositore di Gorizia?

No, non ho mai avuto contatti con Romitelli, e conosco abbastanza poco le sue opere per esprimere un giudizio adeguato. In ogni caso la mia posizione nei confronti delle Accademie (e dei Conservatori) deriva dal fatto che queste istituzioni spesso trattengono le naturali velleità dei giovani compositori all’interno di un circuito emulativo di grammatiche predeterminate. Una fissità quasi “tanatofila”. Anche oggi, che sicuramente, almeno in alcuni casi fortunati, appaiono disposti a conoscere il lavoro che si compie fuori dalle loro mura, spesso tendono a giungere con un certo ritardo, cogliendo principalmente gli aspetti più superficiali e “fascinosi” di alcune tendenze in voga (il più delle volte le più tecnocratiche). Non solo qui in Italia, ma in genere nel mondo, le accademie sono fucine di produzione. Si strutturano futuri musicisti affidabili, ma raramente esiste una disponibilità ad ascoltare le eterodossie dei musicisti stessi. Nelle accademie musicali straniere spesso prevale la scuola acusmatica, che è diventata una vera e propria linea guida, una sorta di stilizzazione post-grammaticale che subisce tutti gli influssi post-romantici delle tematiche classiche, e non si pone più il problema di una evoluzione dei linguaggi. A mio parere appare sempre più come una sorta di nuova scolastica, all’interno dell’elettronica contemporanea. Questa resistenza verso i movimenti naturalmente eterodossi, che si affacciano nelle realtà musicali extra-accademiche, e che sono delle ovvie evoluzioni, spesso certamente anche dei rami morti, nel percorso della storia della musica, è una sorta di dogma centrale dei conservatori, forse già dal nome. Quasi più per inerzia che per scelta consapevole, temo. Una deriva comune, purtroppo, a grandi strati della cultura in generale. In ogni caso, come dicevo, ci sono anche isole fortunate, anche se queste troppo spesso dipendono, come fu il caso di Alvise Vidolin a Venezia (ed oggi dei suoi “discepoli”), dalle singole persone e dalla loro singola sensibilità.

Maurizio Inchingoli e Tommaso Gorelli: Parlando di questo periodo, raccontaci di cosa ti incuriosisce ancora, alludiamo in modo specifico alla musica, e del tuo rapporto con le tecnologie. Ad esempio se guardiamo le immagini presenti nel vinile de La Mutazione vediamo dei frammenti provenienti dagli allora Centri Di Calcolo di Padova. Immaginiamo che queste abbiano influenzato in qualche modo non solo le tue ricerche, ma anche la tua visione d’insieme, o “sintesi mentale”…

Il mio rapporto con la tecnologia resta in fin dei conti oltremodo marginale, seppure non ne possa essere estraneo. Forse dovrei meglio dire che vive di un ritardo naturale, una distanza che è probabilmente la medesima distanza che interpongo tra il mio lavoro e la contemporaneità, intesa come correnti culturali in voga. Mi sento distantissimo, ad esempio, da qualunque post-modernismo, che vede nella tecnologia la linea di forza degli sviluppi. Così come sono, in diverso grado, distante anche dalla modernità quando pretende di stabilizzare la realtà, e non tollero richiami alla tradizione quale fissità aurea (dove sono dunque?). È evidente che io sia un uomo del ventesimo secolo, sfociato ora nel ventunesimo, e che dunque usi della tecnologia come punto cardine per svolgere la mia attività. Ma a differenza di molta pratica corrente, ogni mezzo per me rimane tale, non assume mai una natura tirannica, assolutizzante (feticista). La tecnologia non è “nuova”. Le industrie litiche (i bifacciali del Musteriano, come i microbulini del Gravettiano) sono tecnologia. Nel mio caso, quindi, i vari passaggi attraverso diverse tecnologie (quella microfonica permanente), dall’elettronica analogica dei primi anni, che ha incluso per un breve periodo anche l’elaboratore elettronico, l’approdo al nastro magnetico e oggi, in una parte specifica del lavoro, anche al digitale, sono solo modalità con cui la materia sonora trova modo per manifestarsi. Così come l’abbandono di alcune di queste modalità tecniche (ad esempio l’elettronica come generatore di suono), deriva dal fatto che è sempre più nettamente la materia a canalizzare le mie necessità compositive, ed è dunque la sua natura instabile ed accidentale che riveste per me la primaria importanza nella morfogenesi di un’opera. Molta tecnologia, ovviamente, nasce quale realizzazione di strumenti affidabili, diretti a scopi precisi. La loro natura primaria è l’affidabilità, che ovviamente va di pari passo con la prevedibilità. Il mio lavoro con il suono, invece, si muove proprio sulla frontiera dell’instabile, dove è l’accidente a determinare lo scatto oltre la soglia e a mettere in moto la generazione di una forma (come la topologia insegna). Ciò che trovo ancora incredibilmente interessante è proprio questa natura accidentale, il momento sorgente di un epifenomeno all’interno di fenomeni anche vasti, ovvero quelli che René Thom chiama i punti catastrofici di un’insieme su uno spazio sorgente. Scovare queste piccole manifestazioni acustiche, apparentemente involontarie, spesso piccole epifanie sonore rare, e da quelle incominciare a costruire un nuovo universo strutturale, sono i punti di emergenza del mio lavoro. Lavoro ancora in modo continuo (ma mai parossistico) nella ricerca, che inevitabilmente si è progressivamente allargata anche verso altri campi di studio, ovvero le teorie dell’evoluzione, la morfogenetica e le sue applicazioni, le scienze fisiche e la loro geometrizzazione, la semiotica, e così via. Si tratta in fondo di campi apparentemente diversi, che possiedono però numerose linee di congiunzione forte, e che sono in grado di aiutarci a comprendere la realtà, la quale resta, alla fine dei conti, il punto oggettivo di riferimento di tutta la mia ricerca.

Maurizio Inchingoli e Tommaso Gorelli: I prossimi progetti in cantiere? Dischi nuovi, magari altre ristampe in vista, ad esempio i tuoi lavori con Tiziano Dominighini negli allora “Airthrob In”?

In questo momento sto lavorando a progetti diversi tra loro. Oltre al libro che scrivo con James Wyness, cui ho già accennato, e alle componenti teoretiche che appaiono nelle edizioni dei miei lavori, per quanto riguarda la scrittura, e a parte il lavoro per l’antologia monumentale di Enrico Piva, al momento ho deciso di porre innanzitutto un punto zero della mia storia musicale. Ho ritrovato le mie primissime registrazioni musicali, effettuate assieme a Tiziano Dominighini nel 1979, precedenti anche a tutta l’esperienza elettronica successiva. Si tratta di lavori ovviamente giovanili (avevamo sedici anni!) ma molto interessanti, non solo dal punto di vista storiografico, ma anche per una loro particolare natura, al tempo stesso minimale e bruitista. Solo attraverso un lungo lavoro di ricerca d’archivio (nel mio incasinato archivio: oggi va un po’ meglio dopo quel lavoro), sono riuscito a datare questi materiali e pure a ritrovare alcune sparse note intorno alla loro origine e alle intenzioni compositive. Ho così deciso di realizzare un progetto, che diverrà un cd in uscita a breve (“Counterchronology”, che dovrebbe andare in stampa questo giugno per l’etichetta Final Muzik), mantenendo una linea filologica molto elevata, ricucendo assieme i frammenti ritrovati (non in senso collagistico, ma strutturale ed articolatorio) sulla base delle intricate annotazioni rinvenute, e dando loro una cornice adeguata (l’unica componente post-filologica adottata). Durante la gestazione di quest’operazione, tutto questo è diventato molto importante per me, proprio per dare un punto sorgente a tutto il percorso che si è sinora dipanato nella mia vita musicale, per fornire dunque quell’anello mancante, che precede qualsiasi mio contatto con quel nascente mondo delle avanguardie para e post-industriali, in cui mi sono occasionalmente trovato successivamente, e di cui allora avevo nulla conoscenza (immerso solo nei primi dischi di musica elettronica tedesca, da Schulze ai primissimi Tangerine Dream). Una volta che questo punto zero sarà stabilito, ci sono due progetti in corso. Sulla scia di questo “punto zero” ho deciso di stabilire una sorta di ponte (vogliamo chiamarlo un punto 1?), attualizzando un progetto pensato assieme a Tiziano Dominighini nel 1981, di cui ho ritrovato, durante la suddetta fase di ricerca archivistica, le registrazioni. Il progetto, dal titolo “Sound-Placing”, uscito allora come cassetta autoprodotta contenente solo una parte delle registrazioni originali, voleva consistere in una collocazione sonora di musica in interazione con l’ambiente urbano, ma non fummo mai in grado di realizzarlo. Oggi ho deciso di attualizzarlo e allo stesso tempo di riportarlo alla sua natura originaria, rifondandolo sulla base di un discorso legato alle soglie, che fu il nocciolo ispiratore, allora probabilmente solo intuito, restante sullo sfondo dell’operazione di collocazione sonora in ambiente urbano. Sto quindi oggi lavorando con quelle antiche registrazioni, affiancate da registrazioni fatte alla fine del 2013 in ambiente, strutturando il tutto intorno a questo principio di soglia percettiva. Non una musica del silenzio, sia chiaro, ma al contrario (o a complemento), un lavoro di soglie all’interno di masse sonore quasi regolari. Se tutto andrà come previsto dovrei essere in grado di completare questo lavoro entro l’estate all’incirca, e poi potrà andare in produzione per i tipi della Menstrual Recordings. Una volta finiti questi lavori potrò riprendere in mano il mio cammino, per portare a compimento un progetto sorto oltre dieci anni fa (“Nganuo”), dedicato alla trasposizione tra accessorio e principale, tra elemento ritenuto ornamentale ed elemento strutturale, per il quale ho già realizzato una buona parte delle registrazioni, che dovranno però essere completate, e che poi dovrò articolare in senso compiuto. Non sono in grado di prevederne un termine ragionevole al momento, ma penso di non sbagliare tanto se prevedo un anno o due di lavoro. Immagino che nel frattempo altro succederà. Tra l’altro non credo che mi sposerò.


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