(Pubblicato nel forum Kataweb il 25 gennaio 2003)
Da torinese, posso affermare che Torino non si sente orfana di Gianni Agnelli – come molti giornalisti hanno enfaticamente detto. Certo, la “Famiglia” è storicamente stata ed è tuttora parte imprescindibile della città: un po’, credo, come il Papa per i romani.
Tuttavia – pur essendo allora un ragazzino – ricordo bene le lotte operaie dei primi anni ‘80, gli scioperi e le manifestazioni contro i licenziamenti. Per le vie del centro si respirava un’aria pesante, carica di tensione e violenza, nei confronti degli Agnelli c’era un’ostilità diffusa e molto forte. Anche oggi la situazione è critica, ma, diversamente da allora, c’è tra i dipendenti Fiat una rassegnazione al peggio che lascia presagire un destino ormai segnato. Su questo, i giornali hanno preferito sorvolare.
In ogni modo, Gianni Agnelli non è stato un capitalista tout court ma – entro certi limiti – un industriale illuminato, sufficientemente aperto al dialogo. Era un uomo amante della cultura, dell’arte, ed è stato un autentico mecenate per Torino. Un signore d’altri tempi, austero e riservato, che mai si permise di utilizzare la carriera politica per i propri affari. Nulla a che spartire con Berlusconi, per il quale tra l’altro non provava alcuna stima.
La sua morte è, per certi versi, simbolica. Rappresenta la fine del capitalismo a gestione familiare. Ma soprattutto viene a coincidere con la morte della Fiat così come gli Agnelli la concepirono, ovvero torinese ed italiana.