Qualche giorno fa mi son ritrovato a rileggere più e più volte una frase del “Buongiorno” di Massimo Gramellini sulla Stampa:
“Abbiamo imparato a difenderci dalle parole: svuotandole, rendendole innocue. Solo le immagini hanno ancora il potere di svegliarci. Sbattendoci in faccia la vita in ogni sua espressione, anche inaccettabile, tanto da non potere più fare finta che non esista o che non ci riguardi”.
Gramellini faceva riferimento alle immagini dell’attacco con il gas nervino lanciato dai soldati siriani, una serie di fotografie che hanno riacceso una delle dispute più annose fra i professionisti dell’arte di scrivere con la luce: quando si supera il confine etico, e quando non è moralmente legittimo produrre e pubblicare uno scatto? Entrambi gli schieramenti – quelli che “la foto è una testimonianza e va scattata ad ogni costo” e quelli del “scattare e pubblicare una foto di Lady D. morente va oltre ogni tipo di diritto di cronaca” – hanno ragioni da vendere, obiezioni sensate, pensieri cristallini. Chi scrive non ha una risposta, ed una risposta probabilmente non ci sarà mai.
Il pensiero di Gramellini è tremendamente vero. Abbiamo progressivamente svuotato le parole del loro significato, le abbiamo utilizzate in contesti che ne hanno ammorbidito irrimediabilmente l’uso, ci siamo persino dimenticati della loro origine. Mentre scrivo, sulla home page di un noto quotidiano online leggo “E’ guerra nel PDL fra falchi e colombe” e, pur amando infinitamente giocare con le parole, anche in questo spazio, e pur adorando le metafore in ogni loro espressione, non riesco a fare a meno di pensare che quella parolina lì dovrebbe evocare cannonate e pallottole e bombe e trincee e carri armati, e noi la utilizziamo come sinonimo di acceso confronto dialettico all’interno di un partito.
Le immagini, le fotografie, hanno davvero una forza del tutto differente. Alcune sono diventate dei veri e propri simboli, altre sono note soltanto fra gli addetti ai lavori, tutte hanno in comune una magnifica irrepetibilità: quel secondo, quell’istante catturato su pellicola o su una schedina Compact Flash sono unici al mondo, non avranno una nuova edizione nel tempo e nello spazio. Quando fate click state producendo un risultato che non si potrà ripetere mai più, in nessun altro luogo ed in nessun altro momento della storia dell’Universo intero. Fa venire i brividi.
Palazzo Reale ospita una mostra su Gianni Berengo Gardin, uno di quei personaggi per cui val la pena essere orgogliosi di avere avuto i natali nel BelPaese. Ogni sua immagine – e con ogni intendo dire ogni – è un racconto, un’ispirazione per il pensiero, la dimostrazione che è possibile narrare una storia con una lente ed un obiettivo. Avete solo un paio di giorni per godervela in tutti i suoi 180 scatti, con qualche limite espositivo dovuto all’illuminazione ma con una profondità artistica e reportistica che merita il viaggio ed una eventuale coda. Che si tratti di puro reportage (ed in questo caso Berengo Gardin ti “sbatte in faccia la vita in ogni sua espressione, anche inaccettabile”, per citare ancora una volta Gramellini) o di ritratti ambientati, l’artista scioglie il suo bianco e nero in una galleria di emozioni, semplicità, composizione e sensazioni.
Bellissima, bellissima proprio.
Informazioni
Gianni Berengo Gardin – Storie di un fotografo
Palazzo Reale, piazza Duomo 12, 20100 Milano
orari:
lunedì 14.30 / 19.30 – martedì – domenica 9.30 / 19.30 – giovedì e sabato 9.30 / 22.30
Biglietti
Intero € 8,00 Ridotto € 6,50 Ridotto speciale € 4,00