Magazine Cultura
È tutto un brulicare inesauribile di figli, di padri, di sconosciuti, di razze, di progetti e di disinganni, di luoghi comuni e scelte ardite: queste brevi narrazioni - che fatico a chiamare "racconti" - sono sì grigie, però mai opache o piatte. C'è una forza, in queste pagine, che è tutta movimento: ai protagonisti succedono tante cose, e in un rapidissimo susseguirsi, ciò che conferisce loro un'impressione di stasi è proprio il salto quasi incurante tra un fatto e l'altro.
Nello stesso tempo, va detto che il tono sapienziale, l'insistenza su un approccio olistico (come di un universo che si snoda ben oltre i suoi confini e tende ad assorbire il creato), non porta poi al fiabesco o all'universale. Le conclusioni sullo spirito alle quali giungono queste persone sono insieme private e ambiziose, vengono generosamente condivise in un viaggio tra le pianure che ha il sapore di un'intervista. Sono conclusioni al plurale, che ci riguardano in quanto ci interpretano, ma non necessariamente ci appartengono e non si fa nessuna fatica a proseguire nella lettura anche senza condividerle.
Voglio dire, si può procedere anche senza accordare credito all'autore su una definizione quasi pirandelliana della vita, anche se di tono meno enfatico, come di "una trama di rapporti cerimoniali per tenere insieme qualcosa d'inconsistente". Il distacco della voce narrante, concretissima e incisiva, a prima vista timida e in realtà in agguato, crea quella commistione un po' arcana tra aderenza e rigetto della scrittura che mi sembra una cifra tutta di quest'opera. Sorprende quindi l'asciuttezza con la quale il narratore si sbroglia dalle altre figure e fa capolino, come in Storia di un apprendistato, in una codificazione autobiografica che forse spiega più di ogni altro l'intero progetto alla base di Narratori delle pianure.
Ecco, è come se da questo libro e dalle sue nebbie sbucasse fuori Gianni Celati; ma poiché ancora io non lo conosco, l'autore mi sfugge tra le nebbie delle sue pianure lontanissime.
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