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Gianrico Carofiglio: “Il segreto del mio successo? Il rispetto per il lettore”

Creato il 04 dicembre 2013 da Leultime20 @patrizialadaga

Ci sono persone che si “leggono” come libri aperti e altre che, per provare a capirle, devi leggere i loro libri. Lo scrittore Gianrico Carofiglio appartiene alla seconda categoria.

Carofiglio 1º piano

Lo incontro a Milano in una gelida serata di fine novembre, l’appuntamento è nella hall del suo albergo dove arriva stanco e infreddolito, dopo una giornata trascorsa tra interviste e presentazioni del suo nuovo libro, Il bordo vertiginoso delle cose, uscito da poche settimane per Rizzoli e già in cima alle classifiche dei libri più venduti in Italia.

Barese, classe 1961, ex-magistrato ed ex-senatore, Carofiglio ha modi eleganti e controllati, regala pochi sorrisi, molte risposte argute e diverse citazioni letterarie.

Il suo cellulare suona spesso, i giornalisti lo assediano e lui non si sottrae. Mi offre da bere, io prendo un tè per scaldarmi e provare a rompere il ghiaccio, lui un sobrio succo di pomodoro. Avvio la registrazione sul mio Ipad e cominciamo a parlare del suo romanzo, una bella storia di formazione, ma anche d’amore.

Unknown

Quanto c’è di Gianrico Carofiglio in Enrico Vallesi, lo scrittore protagonista de Il bordo vertiginoso delle cose?

Dal punto di vista dell’autobiografia emozionale c’è molto, moltissimo. È inevitabile che sia così altrimenti non potrei creare personaggi credibili.

Il segmento di storia dedicato all’iniziazione alla violenza ha a che fare con cose che mi sono capitate, anche se non esattamente in quel modo; a un certo punto della mia vita sono venuto in contatto con ambienti non politici in cui la violenza era vissuta quasi come una parte naturale della vita quotidiana, per via della zona della città in cui abitavo, dello sport che praticavo e dell’ambiente di chi praticava quello sport, che era il karate. Sono torbidamente affascinato dagli sport di combattimento, vivo una sorta di attrazione-repulsione nei confronti della violenza, del contatto fisico. Ciò si deve a molte ragioni, alcune raccontate nel libro. Spesso uno ricorre alla violenza per un senso di inadeguatezza. La soluzione più intelligente di fronte al rischio di un combattimento fisico è la fuga perché espone di meno a conseguenze incontrollabili. Però ci vuole più coraggio per scappare e io, probabilmente, non ne avevo abbastanza. Devi sentirti molto sicuro di te per fuggire via dignitosamente; se non ti senti sicuro di te accetti le sfide e questo ti può far crescere, ma giammai mi sentirei di raccomandare un tirocinio alla violenza come strumento di maturazione personale.

Queste sono le esperienze “fisiche”, quali invece quelle intellettuali che si riflettono nel protagonista? Per esempio, il fatto degli incipit di libri famosi copiati con la macchina da scrivere dall’Enrico Vallesi ragazzino è qualcosa che hai fatto anche tu?

No, è una cosa completamente inventata. La passione per gli incipit mi è venuta molto dopo l’età della vita raccontata in quella parte di romanzo, però mi piaceva molto l’idea di un ragazzino che venisse colto da una passione letteraria così forte.

Come hai scelto gli incipit da citare?

Sono incipit bellissimi ma questo non significa che corrispondano ai miei romanzi preferiti. Il più bello forse è quello di Pavese, ma il seguito del romanzo, secondo il mio gusto, non regge la competizione. Il mio incipit preferito, tuttavia, lì non c’è. È quello di Mattatoio n. 5, di Kurt Vonnegut che è una sintesi della letteratura in pochissime parole perché recita così: «è tutto accaduto, più o meno».

In una pagina del tuo libro descrivi la biblioteca di un’abitazione in cui il Codice Da Vinci di Dan Brown è affiancato a un libro sulla dieta a zona e a un volume di barzellette. È una stoccata ai bestseller che vanno per la maggiore?

Be’ non è certo la mia biblioteca ideale, ma non è che io abbia qualcosa contro i bestseller. Qualche anno fa ho molto apprezzato il romanzo di David Nichols, Un giorno, che ho trovato davvero molto commovente e ben scritto, forse non un bestseller come Il Codice Da Vinci, ma di sicuro un grande successo internazionale. Questo per dire che non ho preconcetti. Quanto a il Codice Da Vinci, ne avrò lette cinquanta pagine, ma l’ho lasciato. L’ho trovato veramente illeggibile. Questo non significa che non ci sia spazio per tutti e che in certi momenti un romanzo commerciale e di puro intrattenimento non si possa leggere.

Quanto a classifiche di vendita, anche i tuoi romanzi non se la cavano male visto che si piazzano sempre ai primi posti. Secondo te perché agli italiani piacciono tanto i tuoi libri?

Una volta, un signore molto importante dell’editoria italiana che non sono autorizzato a citare, mi fece dei bei complimenti, non scontati visto il personaggio, e mi disse: «Mi piace il fatto che tu rispetti il lettore, non gli imponi il tuo punto di vita, lo conduci nella storia lasciandogli lo spazio per farne la sua storia». Mi è molto piaciuto sentirmelo dire e mi piace pensare che uno dei motivi del mio successo sia questo, ma in realtà i veri motivi non li sa nessuno. Sai cosa diceva Somerset Maugham quando gli chiedevano i segreti di un romanzo di successo? Diceva che c’erano tre segreti… sfortunatamente nessuno sa quali siano.

E come gestisci questo successo che ti obbliga a un costante rapporto con i media e con il pubblico?

Io non amo gli scrittori che mostrano tedio negli incontri con il pubblico, che sono annoiati o peggio villani. Uno può anche decidere di non fare le presentazioni, c’è chi non le fa ed è rispettabile, ma se decidi di andarci, perché ti fanno conoscere, fanno vendere più libri, taluni dicono anche che servono a rimorchiare ma io non ho fatto questa esperienza, insomma, se le fai devi essere gentile, devi essere grato a chi viene a sentirti. Ancora una volta la chiave è il rispetto.

Ci sono state critiche irrispettose nei tuoi confronti?

Non vorrei sembrare retorico, ma credo che le critiche in spirito costruttivo, benché possano “pungere”, non danno motivo di prendersela. Se invece la critica è una”schizzo di veleno”, svincolata dal contenuto del libro, che a volte non è nemmeno stato letto, è fastidiosa ed evito proprio di leggerla.

P.Ladaga con G. Carofiglio

Nella parte finale del libro il protagonista incontra per caso un aspirante scrittore in mezzo alla strada e gli lascia il suo indirizzo chiedendogli di mandargli il manoscritto una volta terminato. Hai mai fatto una cosa del genere?

No, non mi è capitato, ma va detto che in quel momento del libro, come in altri, il narratore parla a se stesso. Ogni volta che diamo un consiglio a qualcuno in realtà lo diamo a noi stessi. In quella scena è come se il protagonista stesse dicendo: «Non so se hai talento, ma se ce l’hai prendi l’opportunità che la vita ti offre». Lo dice al giovane scrittore, ma sta parlando a se stesso. Il libro è tutto in questa direzione.

Quando ti viene l’idea per un libro, cosa ti ispira? Come la trovi?

Dipende. In genere l’idea mi viene nei modi più banali ma non tipizzabili e ha una lunga incubazione. Adesso, invece, sto ragionando su un’idea, cosa che di solito non mi capita. Io credo di non aver mai scritto due libri con lo stesso sistema, ogni volta sono costretto a “reimparare” perché non mi ricordo come si fa. Sembra una battuta ma io riesco ad andare avanti quando comincio un libro solo perché mi ricordo che provavo la stessa cosa anche le altre volte. Poi accade qualcosa di quasi magico: sono a due terzi di una prima stesura scadente e illeggibile e improvvisamente c’è un’accelerazione. Tutto va a posto, in due settimane il romanzo è finito e io non so spiegarmelo.

Sei disciplinato quando scrivi?

No, per niente, ti sembro un tipo disciplinato?

Sinceramente, sì. Uno di quegli scrittori che tutte le mattine alle nove sono al computer…

Veramente alle nove di solito cerco di dormire! No, scherzo, in genere alle nove, se non ho fatto tardi (cosa che accade quasi sempre), sono sveglio…

Che libro hai sul comodino in questo momento?

Non ho il comodino.

Ok, allora per terra, sul tavolo… che cosa stai leggendo?

Diversi libri. Un paio di saggi non tradotti in italiano. Uno si intitola The happiness hypotesis di uno psicologo americano (Jonathan Haidt, nda)  che fa una riflessione ad ampio raggio sull’idea di felicità. Per la narrativa, invece, sto rileggendo Tonio Kröger di Thomas Mann e come spesso capita non mi piace quanto la prima volta. Questo mi è accaduto in modo drammatico con Demian di Herman Hesse (uno degli incipit citati nella prima parte de Il bordo vertiginoso della cose appartiene proprio a questo romanzo, nda) che la prima volta a vent’anni mi era piaciuto molto.

Tocca alle foto di rito. Qui finalmente riesco a far sorridere lo scrittore che non si trova troppo a suo agio davanti all’obiettivo. Ci sediamo sul bordo vertiginoso del divano e un barista dell’hotel si presta a fotografarci insieme. Il ghiaccio ormai è sciolto, il velo di timida riservatezza si è fatto più sottile, lo lascio alla prossima intervista con la voglia di leggere altri suoi libri. Intanto lo seguo su Twitter…

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