di Michele Marsonet. Non è mai stato facile per gli occidentali capire lo scenario politico giapponese. Prima nazione dell’Asia in grado di sconfiggere un Paese europeo, grande potenza militare capace di conquistare in pochissimo tempo buona parte del continente asiatico, poi sconfitta in modo disastroso nel 1945. E pure la prima – e per fortuna l’unica, finora – ad aver subito un bombardamento nucleare con l’immane tragedia di Hiroshima e Nagasaki.
Il Giappone è tutto questo, ma non solo. Risorto dalle ceneri dopo la resa totale agli Alleati al termine della seconda guerra mondiale, sempre in pochissimo tempo è riuscito a diventare la seconda economia del nostro pianeta, posizione mantenuta per decenni e senza apparenti sforzi. Il sorpasso della Cina è infatti molto recente, e va detto che almeno per ora non appare definitivo.
Ed è proprio la “questione cinese” a spiegare molti dei rivolgimenti avvenuti negli ultimi anni nel Paese del Sol Levante. I giapponesi erano abituati a guardare i loro dirimpettai con un’aria di superiorità, per così dire dall’alto in basso. La Cina è stata per decadi la piattaforma ideale dell’espansione economica e commerciale nipponica.
Catene alberghiere e di ristorazione, industria ad alta tecnologia e, soprattutto automobili. In particolare dopo la svolta capitalista (non si vede in quale altro modo chiamarla) promossa da Deng Xiaoping, a merci e capitali giapponesi fu concessa una penetrazione capillare. Ponti d’oro agli imprenditori e uomini d’affari di Tokyo. Conveniva a entrambi, essendo a quei tempi il Giappone un grande esportatore privo di materie prime, delle quali è invece ricca la Cina.
Per un certo periodo nessuna preoccupazione militare. La costituzione giapponese, integralmente pacifista e imposta dagli americani dopo la loro vittoria, costituiva per la leadership di Pechino una garanzia. Non c’era insomma il pericolo di vedere di nuovo le truppe del Mikado sciamare nel suo immenso territorio. E, del resto, la politica estera giapponese, dal 1945 in poi, era sempre stata controllata dagli Stati Uniti che tuttora mantengono nell’area forze ingenti.
Nessuno però – e tanto meno i giapponesi – immaginava che la Repubblica Popolare avrebbe conosciuto uno sviluppo così rapido e impetuoso, tanto da diventare come detto sopra la seconda potenza economica globale. Ma, fatto ancor più importante, nessuno immaginava una Cina sempre più forte sul piano militare, al punto da spaventare tutti, e senza eccezioni, i Paesi confinanti o comunque vicini.
Invece è accaduto e a Tokyo c’è stato un brusco risveglio, in particolare da quando Shinzo Abe è premier. Si parla molto del suo nazionalismo, che è a tutti evidente. Assai meno del grande cambiamento degli equilibri in Estremo Oriente, con la RPC che ha assunto una sorta di leadership – per quanto contestata – in quest’area chiave del mondo.
Ma non è tutto. Per certi aspetti, anche se può sembrare strano, il Giappone assomiglia all’Italia. Ha il PIL in calo, una deflazione incombente, un debito pubblico enorme e assai superiore al nostro e, fatto più importante, un fortissimo decremento demografico. Proprio come noi, insomma, i giapponesi diventano sempre più vecchi ed esitano a fare figli. Inoltre non vedono di buon occhio l’immigrazione straniera, e ciò causa ulteriori problemi impedendo di colmare i buchi che cominciano a manifestarsi a livello di manodopera.
Shinzo Abe ha reagito essenzialmente in due modi. In primo luogo adottando una politica economica liberista – la “Abenomics” – che non ha tuttavia dato i frutti sperati dal momento che la situazione è nel frattempo peggiorata. In secondo luogo favorendo il revival del nazionalismo nipponico o, per dirla in modo diverso, il ritorno dell’orgoglio imperiale.
Dopo aver vinto alla grande le elezioni anticipate da lui stesso volute, il premier è deciso a proseguire su questa strada. Chiarendo inoltre che, essendo il Paese privo di risorse energetiche, proseguirà lo sviluppo del nucleare nonostante il disastro di Fukushima.
Vedremo come si svilupperà la seconda fase della “Abenomics”: i risultati sinora ottenuti non sono incoraggianti. Il nazionalismo, invece, è in crescita impetuosa pur destando la perplessità di una parte (non maggioritaria) della popolazione. Le sirene nazionaliste trovano nel Paese orecchie attente, giacché un simile passato di grandezza imperiale non si cancella con rapidità, come forse si era illuso di fare il generale e governatore americano Douglas MacArthur nel primo dopoguerra.
Credo sia questa la scommessa più importante del premier. Se riuscirà a rivitalizzare in maniera completa lo spirito nazionale tutti dovranno preoccuparsi, e soprattutto il gigante cinese. In caso contrario la ragione penderà dalla parte del succitato MacArthur, il quale credeva fermamente di essere riuscito a trasformare il Giappone in una nazione “normale”, come tutte le altre.
Featured image, l’imperatore Meiji (1868-1912).