Ginetto

Creato il 05 marzo 2011 da Fabry2010

di Daniele Contavalli
Quella del mondo è una strana esistenza in cui tutto si fa cenere, niente si scolpisce. Sta camminando dentro un corridoio fatto con la luce gialla della metropolitana, in mezzo a carni cialtrone, di gente che non gli piace e, infondo, non si piace neanche lui! Il vicino aveva preso a cazzotti le figlie e la moglie all’alba, tra le altrecose le aveva legate al letto e prese a cinghiate. I carabinieri erano entrati in casa, sempre troppo tardi per fermarlo, esempre troppo presto perché potesse fuggire. Avevano trovato le figlie diquell’uomo stese a terra, come baci perugina fracassati. Ginetto li aveva chiamati, affermando che il suo vicino era eccessivamentesu di giri. Più tardi, sceso di sotto, passando davanti alla porta della loro casa,aveva potuto captare il tonto sguardo di riconoscenza delle due ragazzine, peraltro ancora legate sul pavimento e considerate parte integrante dellascena del crimine. Roba per la scientifica. Le piccole sapevano, intimamente, che solo lui poteva aver fatto quellatelefonata liberatoria.La più minuta, quella che più spesso lo salutava durante i rari incontrinel fabbricato, cercava di parlare tra i denti spezzati, ma dalla boccausciva solo un triste suono grottesco, uno strano soffio da serpente. La piùgrande tossiva sangue, cercando lo sguardo rassicurante del televisore, l’elettrodomestico che era stato danneggiato dal padre. Infatti, dopo averle legate con estrema cura, aveva spedito la moglie dentro il video. Ginetto, sentito il botto, il tonfo della testa e le urla acute, giustificatedelle bambine, non aveva avuto più dubbi ed era corso al telefono. Il resto della vicenda si era risolto in una danza di pellirosse davanti adun letto macilento e gracchiante. La più grande aveva già dimenticato Ginetto; lui, scendendo le scale, contraccambiò la dimenticanza, diede uno sguardo alla madre con le pantofole ciondolanti ai piedi, con le gambe oramai esamini affioranti dalla porta, si volse verso la scala e scese ilgradino. L’unico a piangere alla fine era stato il padre, portato via di forza dai poliziotti, mentre tutto il palazzo, travestitosi da stadio, si era messo aurlare e fischiare. Girato l’angolo, sentì sbattere le portiere delle macchine dei carabinieri.Il palazzo, svestitosi, tornò a dormire.Niente si scolpiva nella vita di Ginetto, solo lo stipendio di commessoin un locale notturno, dove si poteva passare qualche ora con una donna e poi, con lei, trasferirsi nella stanza di sopra. Trovava che ci fosse del male nelle attività dei clienti, ma era persuasoche questa sua considerazione non lo riguardasse più di tanto. Cercava distare al suo posto con moderazione, e con moderazione beveva, con moderazione mangiava, con parsimonia spendeva i soldini per i suoi pesci rossi e viola: aveva sempre avuto il dubbio che fossero piraña, ma il dito dentrola brocca non lo metteva mai, carezzava invece la superficie dell’acqua con una penna di pollo, sia perché gli faceva venire i brividi, e questo lo rendeva ilare e cordiale, sia perché amava osservare l’imbuto nero delle loro bocche a fior d’acqua, quando succhiavano le particole di pane in superficie,e questo finiva per renderlo assolutamente filosofo e meditabondo.In realtà, nerboruto d’aspetto, cosuto nelle mosse che faceva, sempre un po’ ingombrante, manieroso e in ogni modo alla ricerca di un’adattabilità nello spazio, era tipo pizzuto nel dire e con uno sguincio di bocca storta fatta depressione.Faceva elemosine, e quello era il suo modo di scolpire i pochi spigoli delle sale di quella strana esistenza. Dopo aver salvato i vicini era andato in centro, al cinema, in un d’essai da ultima spiaggia: proiettavano il Gabinetto del Dottor Calligaris… lo sguardo fisso del dottore generava in lui un acuto senso di disperazione.In quella poltrona solitaria, smaniava e si torceva nel guardare la sbirciata acerrima e ghignante del dottore. Se gli aveste chiesto di cosa trattava il film, non lo avrebbe saputo dire, e se aveste osato chiedere come finiva, non avrebbe potuto dire altro che le mani davanti al suo volto.Poteva raccontare della poca luce che filtra in questi casi tra le dita, lapoca possibilità di vedere oltre il male, oltre il dottore e i suoi malefici.Poi, benedicendo Wiene, era uscito.

Davanti a lui la gente era una macchia di fascine di fuoco. Tutto ardeva,e allora correva alle sue tasche e guardava il calendario: non era ancoracominciata la quaresima, ma non importava, quella distesa ardente era daspegnere prima che brillasse nella sua mente.Nelle tasche trovò le ultime quattromila lire… scottavano!Mentre camminava con il volto sciolto di dolore, con ancora in facciagli occhi stilettanti di Calligaris, cercava qualcuno cui poggiare i soldi…voleva liberarsi del denaro.Allora vide il povero, unico corpo ritto in un mondo di storti. Uno stranoessere meschino, inginocchiato, pieno di sole sul viso. Bruciava in modo diverso e la sua mano aperta, la sinistra, e la sua mano destra, chiusa, constretto cartello di cartone, dicevano solo di spegnere in esse quei soldi. In quel momento una passò. Era bella, con lunghe gambe bianche, senza un pelo, senza calze e con capelli vermigli. Sbiancò e bruciò per la rossa: il passo di lei calpestava il suo cuore di carbone, le aveva lunghe,coprenti le distanze di molte falcate.Ginetto sentiva tacchi taglienti nel bianco degli occhi. Rimase paralleloal povero che non guardava la rossa. Lui, invece, la rossa la guardava eccome! Poi però ebbe la forza, si volse alla mano bianca del povero, la osservòe ci ficcò dentro le prime mille lire. Il povero, smorfiando di gioia, non badò a Ginetto, né lui però si volse alla rossa, che intanto era scomparsa. Ginetto, continuando la sua corsa tra le mura in fiamme, smaniava. L’atmosfera era arrossata dalle luci del tramonto e l’aria, secca e lucida,portava in evidenza i fatti di quella via. Mentre decideva di incamminasi verso la metro, dentro un portone affiorò una coppia: l’uomo le era sopra, si sentivano i respiri di entrambi, soddisfattissimi. Vedeva la bocca della donna rivolta verso il soffittoin ombra dell’androne, dell’uomo affioravano il grosso corpo e l’intensosforzo per averla su quelle scale. Avvampò e si volse in corsa, dimentico della rossa donna, del poveroe degli amanti impudichi. Corse verso la scala del metrò, scendeva neraverso il basso, scomponendo scalino per scalino le immagini della via. Un altro povero, stavolta in piedi, sporco e urlante, colto da un raptus di sofferenza lo aspettava: il gigante stava sull’imbocco della scala, con le gambe aperte ed i pantaloni spaccati sui ginocchi. Una fiamma gli si agitava sulla pelle, ma il povero, disamorato, non soffriva di questo. Ginetto lo guardò come un avversario. Il povero, che aveva dei vermigli occhi pieni di dolore, chinò il capo allo sguardo mentre con la mano
Ginetto frugava già la scala della sua tasca. Tirò fuori le mille lire, le baciòe le mise nelle mani del gigante. Quando l’ebbe doppiato, una vista ben più terribile lo riconvocò: c’era una casa che oramai bruciava tutta, lì, davanti all’ingresso delle scale mobili. Poté vedere le finestre su cui correvano oscure palle di fuoco, torce che passavano sopra ad un sudario. La casa era triste per le scene che vi si svolgevano, illuminate di dolore e fuoco nelle sue cinque parti: una donna che toccava un uomo davanti a un altro; in una finestra vicina due bambini urlavano davanti alla povera madre morta; ancora, più oltre, dentro un altro appartamento stava un uomo che trafugava dentro cassetti oramai carbonizzati; in un altro piano, uno, con uno strano ghigno, biascicava improperi al telefono, aspettando nervosamente altre storie; poi, più in alto, il volo del suicida. Si girò sgomento verso il buio della scala, non volendo più assistere. Scendeva piano verso il basso, dove solo un rumore di pistone, dal ritmo scomposto, rompeva il silenzio… piano piano… Più piano, alla fine della scala mobile, mentre piangeva, c’era un terzo povero: questo invece ridevadi gusto, con la mano ricattatoria, spavaldamente in richiesta di un oggetto di metallo, uno scudo per smettere di ridere. Lo guardò dal tapis-roulant mentre scendeva: quando gli fu davanti, il povero lo artigliò e gli diede al volo un bacio in bocca. Si sentì lo schiocco della lingua nell’incavo della gola di Ginetto, e questi fu sorpreso, ma irrigidito accettò. Era la pasqua di Ginetto, e tutti i poveri, lì, dentro il sotterraneo, furono arcicontenti. Non c’era fuoco laggiù, solo un gran rombo, Il rumore di pistone era mutato in un tuono continuo che copriva ogni strepito. Si affrettò verso il rumore di quel tuono, sembrava che ci fosse un razzo in partenza per il tutto… forse per il nulla, chissà…All’ultima rampa, un povero, ancora uno. Lo scatto del braccio dentro la tasca fu repentino, le ultime mille lire galleggiavano in superficie. La mano nello sforzo riportò i soldi dentrol’imbuto di cotone, e per un momento sembrò che perdesse le mille lire dentro la tasca. Vide il mare delle lacrime che correvano su per la gola, mali ritrovò prima, in superficie, i suoi soldi. Non aveva guardato il povero, non lo aveva visto bene, spaventoso, se lo trovò così a confronto: senza occhi, con in bocca un tappo di plastica rigida di color vermiglio, forse un grande ciuccio ma da adulto, perfettamente aderente a gran parte della nera sfatta faccia, e un vestito di panno nero. Pieno di croste sul volto , portava con se tutto il buio dell’ultima rampa. Ginetto ebbe paura. La mano con il denaro si fece pesantissima perlo schifo e per il suo giudizio implacabile. I soldi si dissolsero sul peloso guanto bianco del povero infelice; un mugugno di ringraziamento lo accompagnò sulla pedata di travertino… partenza. Ginetto era febbricitante. Mentre scendeva, guardava i muri sporchi egrigi che lo accompagnavano di sotto. Quando alzò il collo, piegatissimosul bavero del cappotto, era faccia a faccia con il controllore.– I biglietti laggiù, signore – disse questi, indicando una macchina obliteratrice arancione.– Non ho denaro – disse Ginetto, mentre invano frugava le tasche. Ma,in verità, inspiegabilmente, non provava ansia per quella mancanza di soldi, quindi si arrese all’evidenza di quella improvvisa penuria.– Lei non può partire! Deve tornare su per la scala di pietra, la vede lascala di pietra? Quella laggiù! È la più ripida, la più difficile di tutte le scaledella zona, lì non ci sono scale mobili e tapis-roulant, anche per questo non la prende mai nessuno, ma è comunque certo che nessuno perde mai il treno. Il controllore a quel punto rise, snello e coeso dentro la sua divisa. Indicò una scala con alti gradoni irregolari, ancora più gialli per la luce dei neon. Ginetto divenne un arco senza corda e senza faretra, senza frecce datirare a improvvidi bersagli, così lentamente s’incamminò; il controllore da lontano fece arrivare un’ultima smorzatissima voce:– Salga le scale e troverà l’uscita, si affretti! È tardi! La stazione chiude! Portò i ginocchi fino al petto per salire le scale. Sudava, e mentre procedeva sentiva il rumore del fuoco che veniva da fuori. Aveva paura ed abbassò lo sguardo, sicuro che in quel povero moto infantile ci fosse lagiusta difesa. Quando giunse alla sommità della scala, il rumore violento delle fiamme gli entrava nella mente. Guardando tra le pieghe del cappotto,come da una feritoia vide il Dottor Calligaris: lo guardava dallo schermo, in mezzo alle case, grande, grandissima era la faccia bianca di panna, con i suoi occhi densi per lo spettacolo che era lì intorno, fissi dall’incendiato recital di fiamme bianche che era il suo cielo. Ginetto trovò la forza e tirò fuori la testa. Sorrise, vedendo i quattro poveri sotto quella volta nivea, tutti con le mani alzate in segno di attesa, una piccola truppa pronta senza comandante. Ginetto alzò gli occhi, guardò la faccia candida di Calligaris, portò lamano lentamente al volto e poté sorridere ancora…



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