Magazine Racconti

Ginnastica Story, Incidenti Sconvolgenti/1: Elena Mukhina

Da Olimpiazzurra Federicomilitello @olimpiazzurra

Iniziamo un viaggio nel mondo della ginnastica artistica alla ricerca di momenti che hanno sconvolto, in negativo, questo sport. Tra cadute gravi. Tra costrizioni di allenatori senza scrupoli. Tra incidenti che hanno modificato questa disciplina. Tra malattie gravi e su cui bisogna sempre riflettere. In quattro puntate (una a settimana) passeremo in rassegna le storie della Mukhina (proprio oggi), della Gomez e della Lan, della Henrich e di tante altre. Tutte accomunate dalla disgrazia. Tutte iniziatrici di un cambiamento. Perché, purtroppo, si sa, è necessario che accada un fatto eclatante perché le cose inizino a cambiare…

 

Quanto ha inciso la durezza e la cattiveria pura di Michail Kilimenko (fratello del grande Viktor, campione olimpico a Monaco 1972) sulla povera Elena Mukhina. In piena guerra fredda, imbottiti dalla testa ai piedi dell’ideologia comunista, la sovietica era diventata il fiore all’occhiello della scuola dalla disciplina ferrea. Iscritta al CSKA (lo squadrone militare dell’Armata Rossa), la piccola Lena era costretta ad allenamenti massacranti e senza il benché minimo spazio per recuperare la salute di un fisico da bambina spremuto come un limone.

 

Batte il capo al corpo libero durante le Spartachiadi del 1975, si evidenzia la lesione delle vertebre celebrali, il medico le consiglia di smettere e… Viene obbligata a continuare. Ancora più follemente di prima. Con un fisico indolenzito e tutt’altro che performante. Una leggenda dice che per non sentire il dolore sniffasse dell’ammoniaca… Il tutto sembra premiarla perché ai Mondiali del 1978 fa faville: in quella che ancora adesso è considerata una delle più belle gare di sempre, si mette al collo l’oro individuale davanti a Sua Maestà Nadia Comaneci e alla connazionale Nallie Kim, conquistando poi altri due ori e due argenti.

 

Nella stessa rassegna quel folle genio che porta il nome di Kurt Thomas si mise in testa di presentare un elemento che avrebbe rivoluzionato l’artistica: una rotazione area di 540 gradi durante il corpo libero (ovviamente fu oro alla specialità, il primo statunitense a conquistarlo). Volgarmente: un salto mortale e mezzo all’indietro con cosiddetto atterraggio volante. Applausi a scena aperta. Difficilissimo ancora oggi e dal coefficiente elevato, per gli uomini è comunque un’esecuzione fattibile e rischiabile vista la potenza muscolare necessaria. Per le donne no! Non può bastare la flessibilità articolare per compiere una tale evoluzione. Ma, per Kilimenko, Elena doveva farlo. Punto e stop. Sotto comando la ragazza dal viso ghiacciato, colei che non sorrideva mai dopo una vita piena di difficoltà, rimasta senza genitori a soli cinque anni, si mette d’impegno e si allena a spron battuto per otto ore al giorno sotto ritmi rigidi. La moscovita ha nel mirino i Giochi Olimpici che si disputeranno proprio nella sua città nel 1980, a pochi giorni dalle sue venti primavere. La sua rivincita. Interiore e mentale più che altro.

 

Nel 1979 una dolorosa frattura alla caviglia la costringe a rinunciare ai Mondiali. L’estate a cinque cerchi, però, si sta avvicinando e la miglior rappresentante del CSKA non può essere lasciata a casa: Mikhail Klimenko si precipita nella capitale per perorare la causa della sua allieva.

3 luglio 1980. Per convincere tutti serve un qualcosa di sensazionale. L’idea di provare effettivamente il Thomas sfocia in realtà. Palazzo dello Sport di Minsk (odierna Bielorussia). Senza pubblico. Senza giornalisti. Senza fotografi. Come prevedere il protocollo dell’Unione Sovietica. Solo lei, Michail e il quadrato magico del corpo libero. Che da paradiso si trasforma in inferno. La caviglia di Lena non s’è ancora ristabilita e non le permette di staccare con la dinamicità necessaria a quella pazzia acrobatica. La rotazione non si completa e la ragazza cade rovinosamente a terra picchiando il mento. La testimonianza sconvolgente di un medico presente in quel momento dirà che lo sfigmomanometro era rimasto inchiodato sullo zero: la pressione della Mukhina era sparita.

Lei stessa molti anni dopo dichiarerà: “Avrei voluto alzarmi e passarmi una mano sulla testa, ma non riuscivo. Avrei voluto gridare, ma non avevo più voce. In quel momento ho pensato che fosse la fine”. Il peregrinare per gli ospedali sembra quasi un viaggio nel Terzo Mondo: a Minsk non può essere curata come deve, a Mosca molti chirurghi sono in ferie. Dovrà attendere tre (sì, tre!) giorni per essere operata e per essere dichiarata fuori pericolo. La diagnosi è però brutale: frattura del rachide cervicale. In sostanza: paralisi dal collo in giù. Sarà l’inizio di una pantomima assurda e che dimostrerà la stupidità di un sistema che ci avrebbe messo ancora una decina d’anni per crollare definitivamente. Un bigottismo, un oscurantismo, una rincorsa al nascondino per non ammettere gli errori fatti sulla preparazione di una delle migliori sportive in assoluto della Madre Patria, per non dichiarare che aveva rischiato di andare all’altro mondo per l’incoscienza altrui.

 

I media occidentali parlarono di una presunta morte occorsa in seguito alla caduta dalle parallele asimmetriche. Il silenzio stampa d’oltrecortina sembrò accreditare questa sciagurata ipotesi, fino al 20 luglio 1980 quando Yuri Titov, allenatore della nazionale nonché plurimedagliato di Melbourne 1956 e Roma 1960, smentirà la notizia: “Anche se quest’incidente non le permetterà di partecipare alle Olimpiadi, Elena Mukhina si riprenderà di certo in breve tempo. Proprio questa mattina l’ho chiamata e mi ha detto di mandare i suoi auguri alle compagne di squadra. Tutte le indiscrezioni di stampa sulla gravità del suo infortunio non sono per niente vere”. Inizieranno ventiquattro mesi di bugie, di mezze verità che sembravano essere state spazzate via dalla gaffe del nuovo coach Amad Shahijasov che, ai microfoni di un giornalista de El Mundo Deportivo, si lasciò scappare che l’ex campionessa “è relegata su una sedia a rotelle“. Il gioco finì solo quando il lungimirante presidente del Cio Juan Antonio Samaranch capì che sotto c’era qualcosa di losco e chiese ufficialmente di incontrare Lena per consegnarle la medaglia d’argento al merito olimpico. Il 20 dicembre 1982 il Mondo venne a conoscenza della verità: Lena è faticosamente seduta su una sedia a rotelle, il suo corpo è completamente immobile, fatta eccezione per un debole soffio di vita che passa ancora attraverso i suoi gomiti; il suo viso non dimostra più che una pallida somiglianza con quello della graziosissima campionessa di ginnastica di soli due anni prima.

 

I piani alti della Federazione Internazionale capiranno solo in quel momento la pericolosità degli arrivi in tuffo e solo dopo una tragedia simile decideranno di proibirli al femminile.

Lena morirà nel 2006, in una splendida casa concessale dallo Stato per alleviare le proprie colpe, a causa di un attacco cardiaco provocato proprio dalla tetraplegia.

 

Cliccate qui per ammirare le favolose quattro rotazioni che la incoronarono Campionessa del Mondo.

Cliccate qui per guardare un documentario su Elena.

 

[email protected]

OA | Stefano Villa

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :