Quel tornare a casa per pranzo, appena usciti da scuola – e parlo delle elementari – era solo un pretesto per innervosirci ulteriormente nelle attese. Inutile aggiungere che avrei mangiato in fretta quasi qualunque cosa (non la verdura, di sicuro), pur di uscire immediatamente per strada a cercare gli amici, in fondo da poco lasciati uscendo dalla classe. Ci si riuniva sul piano dell’Annunziata…
mi perdoni il lettore compaesano, ma oggi ho intenzione di citare i luoghi con il nome più risalente che riesco a ricordare. Non è un capriccio, diciamo che le ragioni tuttavia le rimando al finale di questo scritto. E in fondo non sarà cosa impossibile individuare ugualmente i siti. Solo al fine di mostrare la mia buona predisposizione chiarirò che detto “piano” (o chianu) nient’altro è che piazza Carmine (o Busacca che si voglia laicamente dire), anticamente sede di un convento dedicato a Santo Jacopo l’Interciso e successivamente – per l’appunto – all’Annunciazione del concepimento verginale, poco prima di divenir casa dei Padri Carmelitani.
Da quando i vigili urbani ci avevano dichiarato guerra, persino trattenendo taluni notevoli palloni di cuoio, vaneggiando tra l’altro tagli diagonali sugli stessi, avevamo deciso di abbandonare i sogni di gloria calcistica (le veline non esistevano ancora, dunque perdemmo solo l’occasione di immaginarci ritratti in un album panini, accanto a Matthaus o Klinsmann). In altre parole, in piazza non si poteva giocare! Così – non mi ricordo chi era stato il primo ad annunciarci la scoperta – si saliva un’erta – quella di fronte al chianu, il colle di Monteserrato – per giungere quasi ai piedi del Convento di San Domenico.
Poco lontano dal tunnel che giungeva sino al serbatoio delle acque potabili, c’erano case in costruzione (o in demolizione, non ricordo). Io, Guglielmo e un paio di amichetti, usavamo cogliere di nascosto – chissà poi perché – dei piccoli calcinacci, pietruzze gessose da nascondere subito in tasca per poi fuggire via, a precipizio.
Lungo la ripida discesa non furono mai pochi i ruzzoloni e le sbucciature. Era sangue conquistato in battaglia, che rendeva stupidamente orgogliosi. Come forse non era capitato di sentirsi qualche tempo prima ai residui uomini di Amilcare, in fuga dalla loro città, Hippana, ormai in mano a Gaio Lutazio Catulo. Anche loro, scappando ignominiosamente, saranno scivolati sugli stessi dislivelli di questo declivio, dirigendosi verso il mare? Lo dice Polibio, o almeno di questo vuol convincerci il Perello, guardando in alto, da dove coglievamo quei bianchi sassolini.
L’idea geniale era di organizzare delle corse di automobiline? Quali automobiline?!? Quelle che noi avremmo modellato dai pezzi di stucco raccolti. La pista su cui per sfregamento rendevamo aerodinamici quei bolidi, sagomandone i lati, era il lungo parapetto delle arginature al letto del torrente (a china). Il tracciato cominciava dal piano dell’Annunziata, costeggiando tutto il lato sinistro della Chiesa, sino ad arrivare alla scalinata che ulteriormente si appropinquava verso il fondo dello stesso torrente. Lì correvamo, avanti e indietro, piallando il fondo delle nostre auto, sino a che non si sbriciolavano.
A pochi anni di distanza da quei giochi era ancora possibile scorgere nella pietra di quei parapetti, le rigature biancastre del gesso. Sarebbe bello dire che oggi, nel primo pomeriggio, passando di lì, le ho riviste brillare alla luce laterale del sole…
E invece ormai quelle rigature sopravvivono solo nel ricordo, come i nomi antichi delle contrade, degli eventi storici o leggendari, degli errori grossolani in capo alle affermazioni di chi li tramandava…
Tutto si dissolve, anche i giochi dei bambini.