Il re hascemita di Giordania, Abdullah II al-Husayn, al potere dal 1999, si trova a dover affrontare una complicata fase di transizione del regno. Alle richieste da parte della popolazione di maggiori aperture democratiche si sommano le pressione della tradizionale ed influente componente beduina che mira a riprendere un ruolo da protagonista nelle politiche di Amman. Il crescente malessere della componente di origine palestinese, a lui vicina in questi ultimi anni, ha convinto il re a cercare una difficile riconciliazione con la le ricche famiglie beduine. Da questi delicati equilibri dipenderà la stabilità della Giordania e il futuro della dinastia hascemita.
Le dimissioni del Primo Ministro e la crisi energetica
Le recenti dimissioni del Primo Ministro Awn Khasawneh (26/4), ufficialmente per le troppe divergenze con il Sovrano, hanno aperto una fase di stallo nel già complicato percorso di riforme promesso da re Abdullah II durante le proteste scoppiate nella scorsa primavera (2011). Tra le molte rivendicazioni, la più sentita rimane quella volta ad una radicale riforma elettorale che possa garantire una totale eguaglianza tra cittadini giordani di origine beduina, considerati tuttora di serie “A”, e i giordani di origine palestinese che, nonostante costituiscano la maggioranza della popolazione, vengono considerati come di serie “B”. Altra diffusa lamentela della popolazione deriva dal fatto che il Primo Ministro giordano venga nominato esclusivamente dal sovrano: questo ha portato ad una elevata instabilità della carica con continue e non sempre giustificate sostituzioni (sono oltre 60 dal 1946, tre negli ultimi 10 mesi).
Proprio Khasawneh era stato appositamente nominato dal Re sei mesi fa con il compito di guidare il Regno in una difficile transizione politica; infatti, avrebbe dovuto traghettare la Giordania attraverso una complicata riforma elettorale portandola a nuove elezioni entro la fine del 2012. I disegni di riforma proposti in questi mesi da uomini vicini al Re hanno incontrato il parere sfavorevole dello stesso Primo Ministro e dei diversi gruppi di opposizione, tra i quali spiccano i Fratelli Musulmani organizzati in Giordania nel Fronte d’Azione Islamico (FAI), il quale rappresenta il più forte partito di opposizione. Il principale timore del Re è che l’approvazione delle riforme in chiave democratica possa portare ad un drastico ridimensionamento del proprio potere. La notizia delle dimissioni del Primo Ministro non ha fatto altro che aumentare il sentimento di frustrazione provato da molti cittadini giordani (non solo palestinesi) scontenti sia per le mancate riforme, promesse e mai portate a termine dal Re, sia per le pessime condizioni dell’economia giordana.
Ad un lungo periodo recessivo, negli ultimi mesi si è aggiunta la necessità giordana di rielaborare completamente la propria politica energetica perché, dopo la caduta di Mubarak, la fornitura egiziana a prezzo di favore è progressivamente venuta meno. Per anni la Giordania ha goduto di energia sovvenzionata dai Paesi vicini, in particolare dall’Iraq (prima della caduta di Saddam Hussein) e dall’Egitto ma, con il cambio di regime, il gasdotto che collega i due Paesi ha subito continui sabotaggi che hanno reso la fornitura insufficiente e poco affidabile. Lo scorso gennaio il governo egiziano per far fronte al difficile momento dell’economia interna (meno turismo e meno esportazioni) ha deciso di aumentare il prezzo delle forniture di gas naturale alla Giordania da 113$ per mille metri cubi (tcm), a 200$ (tcm), prezzo questo che rimane comunque più basso del costo medio (282$ tcm) attuato dall’Egitto sul mercato. Questi sviluppi hanno portato la Giordania, caratterizzata da una quasi totale assenza di riserve energetiche, a cercare nuovi partner trovando soprattutto la pronta offerta da parte dell’Arabia Saudita che ha incrementato le forniture di greggio al regno hascemita. Questa nuova dipendenza energetica rischia di limitare l’indipendenza politica giordana, soprattutto nei confronti di Riyadh che vorrebbe fare del Regno una sorta di “corridoio” di passaggio per i rifornimenti destinati all’opposizione siriana.
La legittimità delle famiglie beduine alla monarchia hascemita
Ad accentuare le pressioni nei confronti della monarchia la consapevolezza che negli ultimi anni è stato eroso lo storico legame con le famiglie tribali giordane, la cui lealtà è risultata nel corso degli anni fondamentale per la stabilità del regno hascemita. La costruzione del regno hascemita di Giordania fu infatti del tutto artificiale, conseguenza di quella lunga serie di promesse fatte e mai mantenute dalle potenze europee al mondo arabo in occasione della Prima Guerra Mondiale. In particolare la fitta corrispondenza tra lo Sharif di Mecca, Hussein (trisnonno dell’attuale re di Giordania), e l’Alto Commissario britannico in Egitto McMahon, conosciuta come carteggio Hussein-McMahon, che conteneva la promessa di riconoscere l’indipendenza araba al termine della guerra in cambio del suo appoggio nel fomentare la rivolta contro il governo ottomano. Le promesse fatte non vennero mantenute e successivi accordi tra la Gran Bretagna e la Francia (accordi Sykes-Picot del 1916) portarono, al termine della I Guerra Mondiale, alla spartizione delle province arabe ottomane tra le due potenze coloniali.
Il Regno di Giordania nacque nel 1921 (l’indipendenza ufficiale arrivò solamente nel 1946) come compensazione allo Sharif di Mecca il quale, ridimensionate le proprie ambizioni, ottenne dalla Gran Bretagna due regni per entrambi i suoi figli: il più giovane, Feisal, ottenne l’Iraq, altro Stato costruito dal nulla unendo tre province autonome; mentre il maggiore, Hussein, ottenne la Transgiordania (attuale Giordania). L’artificialità dello Stato comportò una difficile mediazione con le molte tribù preesistenti sul territorio, con cui gli hascemiti strinsero diversi legami e con i quali diedero vita ad una delicata identità nazionale volta però all’esclusione della componente palestinese che a partire dal 1948, anno della nascita di Israele, aumentò demograficamente. Da quel momento il blocco giordano-palestinese e quello tribale, che mai accettò la presenza di una componente tradizionalmente considerata ostile, sono stati in lotta tra loro nel tentativo di influenzare la monarchia a proprio favore. Il legame della dinastia con le famiglie non è mai stato messo in discussione perché i membri delle famiglie di origine beduina controllano non solo i servizi di sicurezza (Dipartimento Intelligence Generale) del Paese ma hanno anche una forte ascendenza sull’esercito. Questo legame, nel corso degli anni, ha fatto emergere il ruolo delle tribù come vero e proprio bastione del regime ed al tempo stesso ha favorito un loro progressivo inserimento in tutti gli apparati amministrativi dello Stato.
Il difficile rapporto di Abdullah II con le famiglie beduine
Questo schema è però venuto meno a partire dal 1999, quando il nuovo re Abdullah II, con l’intento di rinnovare il Paese e la sua economia, ha approvato una serie di liberalizzazioni i cui sviluppi hanno però intaccato i molti interessi della componente beduina (riduzione sovvenzioni), favorendo invece l’ascesa di un nuovo ceto medio imprenditoriale urbano composto per la maggior parte da giordano-palestinesi. Le tribù beduine, che attualmente rappresentano circa un terzo della popolazione giordana (6,5 mln di persone), furono scettiche nei riguardi di re Abdullah II fin dal momento della sua ascesa al trono. Ad alimentare quello che era un vero e proprio pregiudizio, fu soprattutto il fatto che avesse studiato presso scuole occidentali, tra cui la prestigiosa Accademia militare inglese Sandhurst. Elemento di attrito fu la scelta di re Abdullah II di promuovere l’ascesa di una nuova élite tecnocrate, la maggior parte giordano-palestinese, con l’intento di guidare le liberalizzazioni e diverse riforme in grado di portare il Paese ad una condizioni di maggior stabilità politica e economica. Le riforme in questi anni si sono però rivelate poche e molto inefficienti, tanto che l’agenda neoliberale è così diventata una fonte di reddito e distribuzione del potere per il nuovo gruppo dirigente. A peggiorare ulteriormente i rapporti con le grandi famiglie beduine fu il matrimonio con la principessa Rania, mai completamente accettata dalla componente tradizionalista del Paese che poco gradisce la presenza nelle stanze del potere di una donna e per lo più nata in Kuwait e di origine palestinese.
Un malessere sfociato pubblicamente nel febbraio del 2011 quando trentasei capi tribali firmarono una petizione contro la regina Rania e la sua famiglia accusandoli di corruzione; oltre all’accusa, la petizione era rivolta al Re affinché riaffermasse il proprio sostegno alle tribù e ridimensionasse il ruolo della componente giordano-palestinese.
In questi mesi però la situazione sembra essersi progressivamente ribaltata; le dimissioni del Primo Ministro sono solo un’ulteriore conferma di qualcosa che già si era intuito, ovvero che il rapporto di re Abdullah II con l’ala palestinese si è deteriorato, in particolare quello con le classi medie urbane che, influenzate dalle rivolte di primavera, hanno più volte invocato un radicale cambiamento in senso democratico del regime. Re Abdullah II in questo momento di difficoltà ha compreso che la propria legittimità così come l’intera stabilità del Paese dipenderanno anche dal rapporto con le tribù beduine, da lui ignorate in tutti questi anni. Da queste valutazioni la scelta del Re di far visita alle tribù della provincia di Badia, nel tentativo di rinsaldare lo storico legame ed ottenere una nuova promessa di lealtà; un incontro che ha anticipato di pochi giorni l’ufficializzazione delle dimissioni di Awn Khasawneh.
Conclusione
Il potere di re Abdullah II non è mai stato tanto debole come in queste ultime settimane; tuttavia, appare ad oggi molto difficile immaginare un’imminente caduta del regno hascemita. L’eventuale concessione al Parlamento di poter scegliere in maniera autonoma il Primo Ministro, ipotesi questa alquanto probabile, rappresenterebbe una tappa fondamentale per il futuro della Giordania segnando l’avvio di una revisione all’architettura costituzionale del Regno. Una tale riforma comporterebbe il mutamento delle relazioni tra la monarchia, i partiti politici e l’elettorato, rendendo le forze politiche realmente responsabili di fronte alla popolazione; allo stesso tempo, la riforma rappresenterebbe uno “scomodo” precedente per alcune delle monarchie della regione, come il Kuwait e il Bahrain.