“Watchdog and Lapdog? A comparison between british and Italian journalism” è il titolo del dibattito che si è tenuto il 15 luglio all’Italian Cultural Institute di Londra (foto).
C’erano Bill Emmott, storico direttore dell’Economist dal 1993 al 2006 e autore, con Annalisa Piras, del noto documentario Girlfriend in a Coma, un atto di amore verso l’Italia.
C’era John Lloyd, giornalista del Financial Times esperto di media e direttore del programma di giornalismo del Reuters Institute di Oxford, accompagnato da Ferdinando Giugliano, sempre del Financial Times.
C’era anche Marco Nadia, noto giornalista e scrittore, che dal 1993 al 2008 è stato corrispondente da Londra per Il Sole 24 Ore, e che proprio sul Sole ieri ha riportato una sintesi dell’incontro di Londra e del suo intervento:
“In Gran Bretagna da un paio di secoli il giornalismo si distingue come cane da guardia (watchdog, ndr) dell’interesse pubblico, in Italia tende a rappresentare gli interessi di gruppi di potere, politici o economici, di cui amplifica i messaggi (lapdog, traducibile come “cane da salotto” e “lecchino” ndr).In Gran Bretagna è uno strumento di contropotere generale a servizio del pubblico, mentre in Italia è sostanzialmente uno strumento di propaganda, una sorta di esercito “privato” in dotazione al Signore di turno. In Gran Bretagna non guarda in faccia a nessuno, mentre in Italia attacca essenzialmente il nemico del fronte opposto.
In Gran Bretagna il giornalismo investigativo fiorisce e mette i risultati di un’inchiesta a servizio del pubblico, quali che siano le conseguenze su gruppi di potere, aziende e istituzioni, mentre in Italia questo tipo di giornalismo è gracilissimo, dato che si lasciano fare le inchieste alla magistratura e poi si interpretano, sostengono o osteggiano a seconda della fazione di cui si fa parte”.
Giornalismo italiano, tra lapdog e carriera
Nel suo articolo, Marco Nadia scrive anche che in Gran Bretagna «l’informazione è business» più che in Italia e che il buon servizio ai lettori si trasforma in copie vendute. Insomma, il mercato premia indipendenza e aggressività.
La conseguenza è che «nei media, in Gran Bretagna, più si è aggressivi e imparziali, ossia più si disturba il manovratore e più si fa carriera, mentre in Italia più si è faziosi e vicini al Signore, economico o politico che sia e più aumentano retribuzioni, prebende e cariche».
Giornalisti in carriera
Una conseguenza di queste differenze «è che, poiché in un modo o nell’altro il giornalismo italiano è lottizzato, ai protagonisti non spiace per nulla fare parte di una classe di professionisti militanti che diventa protagonista essa stessa rispetto alla notizia. I conduttori dei programmi TV degli ultimi anni ne sono un esempio. La visibilità porta inoltre fama e – perché no? – consente l’eventuale incursione in politica, permettendo al preclaro giornalista di farsi eleggere e avviare una nuova carriera. Senza escludere successivamente un rientro in redazione con un medagliere ancor più ricco e pesante. Il che, in fondo, è motivo di vanto per chi all’informazione imparziale non ha mai creduto».
Quotidiani: chi paga il conto… conta
Tutto questo, noi, in Italia, lo sappiamo. Ma sappiamo anche che accade perché un quotidiano oggi costa molto e non rende nulla, o perde milioni. Così chi paga il conto è anche quello che comanda: grandi imprese, banche, concessionarie di pubblicità, ecc. E’ di questi giorni la notizia che Fiat, che nonostante i suoi problemi, oltre al controllo della Stampa, voglia contare anche nel Corriere della Sera (Marchionne: «il Corriere è un investimento strategico»), che ha un passivo di 800 milioni (100 operativi e 700 per un investimento sbagliato in Spagna).
Giornali asserviti per necessità, ma ancora per poco
Il perno del servilismo giornalistico italiano, di cui si è parlato a Londra, è certamente nella dipendenza da grandi capitali, sia per nascere, sia per ripianare le perdite. Quando questa dipendenza finanziaria verrà meno, automaticamente si creeranno le condizioni per un giornalismo meno condizionato, meno lapdog.
Facile fare previsioni: il prossimo decennio vedrà maturare una crisi profonda delle testate storiche, a favore delle testate online.
Poi, spinti proprio dalla crisi, gli editori faranno l’inevitabile: ricambio generazionale interno e acquisizione della concorrenza più diretta.
Già il Gruppo Espresso si è creato una prospettiva con l’edizione italiana dell’Huffington Post. Tutti gli altri seguiranno. E seguiranno perché da sempre e ovunque le grandi imprese per restare grandi inglobano le nuove medie e piccole di successo.
Altre edizioni, in alternativa, faranno campagna acquisti al dettaglio, per avere una firma di richiamo in più sotto la propria testata e una in meno sotto quella della concorrenza (come si fa nel calcio).
Tutto come prima? Le grandi testate torneranno a monopolizzare l’informazione? Non proprio. Le regole di Internet, la logica del digitale non lo consente. E’ prevedibile che non ci saranno né grandi perdite da ripianare, né grandi guadagni ad allettare. L’industria editoriale perderà presto le sua caratteristiche industriali di grande apparato affamato di risorse. A svantaggio di pochi, a vantaggio di tutti gli altri, un po’ come in Gran Bretagna.
Pierluigi Zonna & staff (Claudio Torrella)
Citazioni: Giornalismo italiano e inglese: due mondi inconciliabili?