di Rina Brundu. L’antefatto è che, tempo fa, quando si vociferava che Arianna Huffington e la sua creatura virtuale, dopo l’America e diversi altri paesi europei (noi, infatti, veniamo sempre quarti o quinti!), avrebbe preso “by storm” anche l’Italia mediatica, un amico giornalista, con cui mi sentivo spesso per questioni di giornalismo-online, mi disse di mandare una richiesta di collaborazione al manager americano che si occupava del “recruiting”. Sebbene poco convinta la mandai: mai ricevuto risposta! Una prassi insolita debbo dire per la mentalità-operational americana che conosco molto bene dato che nelle loro aziende sono nata e cresciuta lavorativamente parlando. Sono quindi portata a dedurne (ma potrei sbagliarmi!) che l’e-mail non l’abbia mai letta oppure che l’abbia inoltrata allo staff-italico che naturalmente l’ha trattata con il modus tipico: cestinandola senza neppure degnarsi di mandare il P.F.O. (acronimo per please. f*** **f!) di circostanza.
Fatti miei naturalmente, ma li riporto in codesto articolo perché quanto andrò a scrivere non sarà critica del tutto positiva per l’ultima avventura globale targata Huffington Post e dunque – mercé l’onestà di metodo di cui non riesco a fare a meno manco volendo – preferisco mettere tutte le carte in tavola. Come è noto, infatti, io sono una grande estimatrice della signora Huffington e da dieci anni a questa parte (in verità, anche un po’ prima che nascesse l’Huffington in America, dato che in Italia erano già stati fatti alcuni esperimenti giornalistici online molto interessanti, sebbene poi siano falliti per quella che ritengo una generale incapacità di visione e di dealing-operational complessivo), oltre ad avere scritto più o meno tutto quello che c’é e c’era da scrivere sulle macro-dinamiche del giornalismo online (espressione che, dati alla mano, faccio vanto di avere creato!), ho scritto numerosi articoli sull’Huffington Post stesso.
Ciò perché sono anche una grande ammiratrice di quel giornale: della sua versione americana però! E lo sono perché, avendolo frequentato, ho toccato con mano la semplicità ed ad un tempo la complessità delle sue dinamiche, la sua grande forza e la potenza-mediatica di cui ha saputo dotarsi (pur con le infinite polemiche procurate anche dal fatto che i collaboratori non venivano pagati!), diventando voce autorevolissima nel contesto civile e politico di riferimento: quello made-in-USA, e scusate se è poco! Tuttavia, non ne ho mai realmente sponsorizzato la sua avventura-globale. Per infiniti motivi: motivi ideali (non ritengo infatti che questo neocolonialismo mediatico sia cosa buona e giusta!), motivi stilistici (tristissime queste home-pages sorelle sparse un po’ dovunque sotto il sole-virtuale), ma soprattutto per motivi di mero ordine giornalistico.
Una delle motivazioni importanti (forse la principale, a dire il vero!), che ha procurato il miracolo-mediatico-huffington (oltre ai soldi del marito miliardario della signora Arianna, nata Arianna Stassinopoulos), è stato senz’altro il radunarglisi attorno della crème-della-crème intellettuale gauchista americana. Giornalisti e scrittori, pensatori e politici, intrattenitori e commentatori capaci che hanno saputo attirare un pubblico-impegnato e hanno infine conseguito il risultato! Uno più uno fa sempre due nel giornalismo cartaceo così come in quello online, no way out! Questo però non è avvenuto nella più provinciale Europa che ancora oggi si confronta con le ragioni mai domate del campanilismo più nefasto; e che non avvenisse era prevedibilissimo! Così come era prevedibile – rispetto al cortiletto italico – l’evidente “chiusura” mediatica (quasi un passa-parola silenzioso!) che è stata posta in atto contro questa avventura mediatica straniera, da parte dell’empireo mediatico as-a-whole, con esclusione, naturalmente, del Gruppo Espresso che è co-partner nell’impresa e a cui l’Huffington.it deve la sua visibilità corrente.
In che modo viene fatto-muro contro la particolare avventura online? Nel solito modo: semplicemente non menzionandolo nei contesti che contano. Non parlandone. Personalmente, che l’Huffington fosse infine approdato sulle nostre sponde, l’ho scoperto grazie ad una ricerca in Internet e io non sono persona proprio disinformata su quanto accade nel mondo giornalistico virtuale (sebbene, naturalmente, scelga con criterio le mie fonti informative!). Sfogliandolo, poi, non ho trovato nulla di quanto mi attirava nella versione d’oltre-oceano. A mio avviso questo accade perché, essendo venuto a mancare quel forte “conforto” intellettuale di cui dicevo per l’originale americano, le varie versioni europee sono diventatate un giornale-online come un altro (perché – diciamolo chiaramente – questo è anche l’Huffington Post.it, almeno secondo me!). Il tutto a ratificare un mio antico credo di fondo: giornalisti si nasce e non si diventa! Soprattutto, non sono i giornali che fanno i giornalisti ma sono i giornalisti (e per estensione gli scrittori, i commentatori, i pensatori di cui parlavo sopra, etc) che fanno i giornali: cartacei o virtuali che siano! Il tutto senza dimenticare che per essere un vero giornalista online occorre un qualcosa di-più a livello di curriculum formativo… anzi, molto di più dell’esamino di Stato di cui sappiamo e che andava bene per il giornalista tradizionale!
Detto questo sempre meglio un giornale che nasce di uno che muore! Questo è purtroppo accaduto a “Pubblico” di Luca Telese, il giornalista de Il Fatto che in polemica con l’editore e – mi sembra – anche con Travaglio, pochi mesi orsono lasciò quella testata per portare in edicola un suo giornale. Ritengo che nella vita occorra sempre fare e chi fa dovrebbe essere sempre incoraggiato: meglio, infatti, avere fallito avendoci provato che non averci provato affatto! Tuttavia – lo dico soprattutto pensando ai tanti giornalisti che hanno abbandonato i loro giornali per seguire l’avventura-Telese (immagino di loro spontanea volontà però!) e adesso si ritrovano senza lavoro – non si comprende davvero perché oggidì qualcuno voglia investire i suoi sogni e il suo denaro in un giornale cartaceo, il cui regno– vivaddio (pensiamo solo agli alberi tagliati!) – è finito per sempre da almeno una decade.
Misteri giornalistici d’Italia! Senza considerare che, sempre in virtù del già-esposto assioma che vuole che siano i giornalisti a fare i giornali, e non viceversa (intendendo con questo che ci sono giornalisti e giornalisti!), nella mia modesta opinione Telese, pur bravo, non è Travaglio! Questo è importante, importantissimo anche rispetto ad un’altra fondamentale regola del giornalismo digitale, ovvero che la FIRMA è tutto! Il resto sono dettagli e neppure tanto importanti!
Featured image, The Washington Post uscita del 21 luglio 1969, giorno in cui è stato fatto il primo passo dell’uomo sulla Luna, fonte Wikipedia.
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