di Rina Brundu. Un paio di giorni fa, durante lo speciale Bersaglio Mobile (La7), dedicato al faccendiere ed ex-giornalista Luigi Bisignani, si è consumato un altro di quei momenti mediatici cult che da un paio d’anni a questa parte giustificano l’esistenza stessa del giornalismo italiano. Senza questi momenti topici, infatti, si scoprirebbe che di questo nostro professionismo-più-impegnato ne potremmo pure fare a meno, mentre un’altra pletora di nullafacenti andrebbe ad accrescere le già panzute percentuali a due cifre che raccontano lo status quo dis(occupazionale) del Bel Paese. Ma forse il termine “pletora” è un’esagerazione. Di fatto, le star-giornalistiche, i giornalisti che fanno il bello e il cattivo tempo in Italia sono pochi; gli altri, loro malgrado, sono costretti a lavorare negli uffici stampa, sottopagati, sfruttati, senza prospettive, minacciati dal digitale che avanza e tutto distrugge. Come a dire che se ci si liberasse di quel professionismo-più-impegnato di cui sopra in fondo l’economia non ne risentirebbe, anzi.
Tornando all’argomento in questione, ovvero allo scontro al vertice di cui ho scritto nel titolo, non ho difficoltà a dire che in un’ ideale contrapposizione Ferrara – Mentana (che esula quindi dalla motivazione che ha determinato l’alterco incriminato), io sto con Ferrara. E sto con Ferrara per un’infinità di motivi. In primo luogo perché il giornalismo è, nella mia visione delle cose, passione. Soprattutto il giornalismo politico; non è dunque una posizione, una visione omologata da addomesticare a nostro piacimento davanti ad un parterre di ospiti selezionati per impressionare il populace, magari regalandogli la sottile impressione di rientrare nell’esclusivo numero dei beati, dei buoni di spirito e dei giusti, di quelli che quando squilleranno le trombe del giudizio saranno chiamati alla destra di Nostro Signore.
Francamente davanti ad un simile richiamo occorrerebbe opporre solamente una pernacchia-stile-Totò. Ha fatto benissimo dunque Giuliano Ferrara, a fronteggiare questa modalità di fare giornalismo incensata da Mentana da una vita, ma anche da Giovanni Floris durante quel Ballarò che ormai non dovrebbe guardare più neppure la Lombardi, tale è il grado di noiosità e di ridondanza cerimoniale e partigiana che ha raggiunto. E bene ha fatto a non andarsene: “No, non vado via, resto qui a rompere i c… e tu non devi permettermi di mettermi a tacere!”. Sembra poco, sembra nulla, sembra maleducato da parte del direttore de Il Foglio. Eppure dietro quest’alterco e il conseguente rintuzzo del richiamo all’ordine dato dal conduttore (alterco e rintuzzo che potevano gestire solo loro, visto il carattere di esclusività dell’olimpo a cui appartengono e di cui ho detto nell’incipit), vi è la chiave per capire come ha sempre funzionato e cos’è stato il giornalismo politico italiano negli ultimi 30 anni (e quindi anche il motivo per cui se ne potrebbe fare tranquillamente a meno): una mise-en-scène, spesso demenziale, il cui valore formale dipende dalla “credibilità” assegnata al conduttore da un’entità mediatica non bene identificata, una messa cantata, un parterre di chierichetti adulanti, un gregge zittito, l’omologazione delle idee e dell’originalità-del-pensiero. Dell’obiettività dell’informazione non ne discuto neppure perché le migliori favole le hanno scritte i fratelli Grimm e non sarebbe consigliabile mettersi in competizione. Lo status-quo descritto è naturalmente vero (ed è valido) sia a destra che a sinistra. Pardon, è vero ed è valido sia di qua che di là, non mi pare bello, infatti, tirare in ballo i morti!
Featured image, screenshot da Bersaglio Mobile (La7).
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