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Giornalismo Post Industriale. Ma per davvero?
Creato il 10 dicembre 2012 da Marcodalpozzo @marcodalpozzoLuca De Biase, PierLuca Santoro, Mario Tedeschini Lalli, Giuseppe Granieri e Sergio Maistrello hanno, tra gli altri, presentato questo lavoro insieme con delle considerazioni personali. Ecco cosa mi appunto (e un paio di riflessioni finali):
- stiamo entrando nell'epoca della conoscenza in cui servirà generare significato e interpretazioni dei contenuti prodotti dalle persone
- le persone seguono le persone e le persone valgono più dei brand: people first, quindi, in un futuro già iniziato
- siamo, di fatto, in un ecosistema tutto nuovo. Gli autori del rapporto raccomandano "survive"
- come? andando oltre le fonti di ricavo attualmente presenti (paywall e advertising) ed esplorando forme molteplici (e.g. long form journalism) senza precludere il riutilizzo dei contenuti, distribuendoli su tutte le piattaforme
- il giornalista non si deve solo aggiornare professionalmente ma deve pensare a se stesso in modo diverso
- il giornalista deve lasciar perdere o ridimensionare l’importanza delle notizie, ormai vere commodity. E la definizione che ne dà Sonderman a me piace molto: "Il giornalista non è più chi racconta i fatti. Oggi è un investigatore, un traduttore, uno storyteller sospeso tra la gente e gli algoritmi che danno le news"
- in questo giornalismo post-industriale, il giornalista esercita una sorta di artigianato di ritorno. Un lavoro da artigiano che non è quello di dare notizie perchè le notizie ci sono già
- l'idea di ecosistema è chiara perchè ci sono le relazioni tra i contenuti e persone; un ecosistema in cui il giornale deve (dovrà) nascerci dentro facendo sintesi di quanto al suo interno emerge e s'agita
- la sostenibilità del giornalismo è prima di tutto una presa di coscienza: il giornalismo è sempre stato sussidiato, perché costava più di quanto il mercato pagava per accedere agli strumenti con i quali veniva pubblicato. Il problema è che la pubblicità, che sussidiava il giornalismo, sta cambiando in modo sostanziale. Quindi o si cercano altre forme di sussidio – dalla filantropia alle varie forme di membership – oppure si cerca di capire quali nuovi strumenti per pubblicare il giornalismo possono convincere il pubblico a pagare, oppure si reinventano i proventi della pubblicità sostituendoli con quote del valore delle vendite che avvengono attraverso i canali che pubblicano giornalismo, oppure si mette il giornalismo al servizio delle comunità che generano un valore per gli aderenti e che hanno bisogno di informazioni per tenersi insieme
***
Sinceramente non so dire se il giornalismo stia vivendo una fase post-industriale. Sarà pur vero, infatti, che la filiera non è più lineare e che il giornalista esercita (deve/dovrebbe esercitare) un artigianato di ritorno ma, intendendo l'industria come un generatore di profitti (è una forzatura?), osservo che quella che ruota intorno al giornalismo non è altro che un'industria o, forse meglio, una cosa che vorrebbe essere industria ma che non ci riesce e che, quindi, fa di tutto - ma proprio di tutto - per poterci riuscire. Con questa lettura, quindi, quello sul Giornalismo Industriale, lo vedo anche come un auspicio. Al quale mi associo totalmente.
La filantropia non è una buona soluzione, a mio avviso. Le mie ragioni sono le stesse che portano Yunus a privilegiare, su ogni altro tipo di Impresa (di Industria, quindi), quella con Finalità Sociali; che è la via da preferire come modello d'Impresa . Credo invece nella membership, intesa come collaborazione tra cittadini, chi scrive e chi legge. In questo modo il passaggio all'epoca della conoscenza penso possa/potrebbe avvenire nel modo migliore possibile con una prospettiva di crescita delle Persone, dei Cittadini, fondata su principi liberi da ogni condizionamento...industriale (anche per evitare casi come quello del Financial Times Deutschland).
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