Le testimonianze di chi è tornato dai campi di sterminio nazisti
Contro le aberrazioni dei negazionisti nulla è più efficace dei ricordi di chi allora era bambino per raccontare ciò che per gli adulti era indicibile
di Gaetano Vallini
Testimonianze, biografie, saggi: è come sempre vasta la pubblicistica in occasione della giornata della memoria delle vittime della Shoah. Una produzione che alimenta il ricordo della tragedia di un intero popolo ma anche del baratro di orrore in cui venne precipitata l’Europa dalla barbarie del nazifascismo. E niente è più efficace dei ricordi di chi allora era bambino per raccontare ciò che per gli adulti era indicibile, e che è rimasto tale per decenni, tanto appariva inverosimile all’ascoltatore. Helga ha la stessa età di Anna. Entrambe sono ebree e vivono nell’Europa occupata dalle truppe del del Terzo Reich: l’una vive a Praga, l’altra in Olanda. Così un parallelo traIl diario di Anna Frank eIl diario di Helga (Einaudi) appare inevitabile. Anna non sopravvisse, Helga sì. Si salvò dall’internamento nel ghetto di Terezin e poi dall’orrore di Auschwitz, tenacemente aggrappata alla propria fantasia, al potere salvifico che talora può celarsi nella parola e nelle immagini. Da adulta è diventata pittrice. Non ha mai dimenticato. E come avrebbe potuto?Come Boris Cyrulnik che, tuttavia, in un campo di concentramento non c’è mai stato. Ma porta ugualmente nel cuore i segni della dolorosa esperienza che ha segnato l’intera sua esistenza. Da bambino, rimasto senza genitori perché arrestati, è scampato in modo miracoloso e rocambolesco alla deportazione. Affermato psichiatra, oggi racconta neLa vita dopo Auschwitz (Mondadori) la sua infanzia da orfano in fuga, in una Francia dilaniata dalla terribile divisione tra collaborazionisti e resistenti.E sono ancora i ricordi di un ragazzino al centro del libro di Leon Leyson, Il bambino di Schindler(Mondadori). Scomparso lo scorso febbraio, l’autore era il più piccolo tra i salvati grazie alla famosa lista. A soli 13 anni, Leon riuscì infatti a farsi assumere nella fabbrica di Oskar Schindler e scampare così, con coraggio e un po’ di fortuna, ai treni della morte.Anche Michael Emge - bambino prodigio costretto ad abbandonare il suo violino nel campo di concentramento nel quale era stato deportato con la famiglia - si salvò perché era in quella lista. La sua storia, riemersa oggi per merito di Judith, una ragazzina tedesca di undici anni, è raccontata da Angela Krumpen ne Il violinista di Schindler (San Paolo). Judith, grazie alla sua passione per il violino e all’amicizia con Emge, comincia a esplorare questo capitolo oscuro della storia tedesca. Insieme all’ex musicista, si reca ad Auschwitz. Qui l’anziano viene sopraffatto dai ricordi. Le memorie di Alina Margolis-Edelman, raccolte in Una giovinezza nel ghetto di Varsavia(Giuntina), ci portano da Lódz, sua città natale, a Varsavia dentro e fuori le mura del ghetto, parlandoci del tragico eroismo quotidiano di uomini e donne destinati alla più crudele delle morti e che lei, con il suo racconto, contribuisce a salvare dall’oblio.In Rumkowski e gli orfani di Lodz(Marsilio) Lucille Eichengreen ripercorre le vicende dell’ex direttore dell’orfanotrofio cittadino, nominato poi “ebreo anziano” del ghetto dai nazisti. Per alcuni fu un eroe capace di guidare con determinazione la sua comunità nel momento più buio. Ma questo libro mostra come nella cruda realtà quotidiana Chaim Rumkowki sia stato tutt’altro che un eroe. Eichengreen racconta infatti i crimini commessi da un ebreo verso altri ebrei, la propria umiliazione e gli orrori dei quali fu vittima, svelando come Rumkowski tradì il proprio ruolo di “anziano” di Lodz collaborando con il nemico, con la corruzione e con l’abuso dei bambini.In Ballando ad Auschwitz(Bompiani) Paul Glaser racconta invece la cronaca di una indagine e di una scoperta che cambiano la sua vita, ma traccia anche il ritratto di una donna straordinaria. Cresciuto in una famiglia cattolica nei Paesi Bassi, Paul Glaser, già adulto, scopre di avere in realtà origini ebraiche. Profondamente turbato, cerca di comprendere cosa è successo alla sua famiglia durante la Seconda guerra mondiale, il perché di un silenzio così lungo sulla sua identità. S’imbatte così nella figura della zia Rosie, sorella del padre. Ebrea non praticante, Rosie è una donna esuberante, astuta, innamorata del ballo, che non si intimorisce neppure quando i nazisti prendono il potere; anzi apre una scuola di danza, ovviamente illegale. Tradita, finisce ad Auschwitz, ma è determinata a sopravvivere utilizzando tutti i mezzi a sua disposizione, anche la sua passione per il ballo, e una capacità seduttiva pur messa a dura prova dagli stenti. Ci riuscirà: sarà una delle otto persone, delle milleduecento arrivate con lei ad Auschwitz, a sopravvivere. Berlinese di nascita, anch'essa deportata ad Auschwitz, poi ebrea errante tra Palestina, Stati Uniti e Italia, Carola Cohn, con l’autobiografia Le mie nove vite(Castelvecchi), ci offre il racconto affascinante e drammatico di un'esperienza individuale e culturale che attraversa l'Europa e l'America dagli anni Trenta del Novecento a oggi. Il mondo ebraico e le diverse forme di antisemitismo diventano occasioni per fare i conti con il passato familiare e sottolineare, allo stesso tempo, il pericoloso permanere di atteggiamenti, comportamenti e linguaggi che furono i prodromi della catastrofe.Agli anni che precedettero tale catastrofe, e a una singolare circostanza, è invece dedicato il libro di Edgar Feuchtwanger Hitler, il mio vicino. Ricordi di un’infanzia ebrea(Rizzoli). Nel 1929, Edgar è un bambino che vive in Grillparzer Strasse, a Monaco: la madre è pianista, il padre editore, e la sua casa è abitualmente frequentata da Thomas Mann, Carl Schmitt, Richard Strauss. Dall’altro lato della strada vive un uomo il cui volto comincia a fare la sua comparsa sui giornali. Senza troppa attenzione, il bambino lo osserva salire e scendere da una grande auto nera. Fino al 1933, quando quel vicino, nominato cancelliere del Reich, trasformerà in un incubo la vita degli ebrei tedeschi, come i Feuchtwanger, che però fortunatamente nel 1939 riuscirono a fuggire a Londra.Il popolo che disse no di Bo Lidegaard (Garzanti) è invece dedicato alla Danimarca, che durante l’occupazione nazista riuscì a fare ciò che altri Paesi occidentali neppure abbozzarono. Venuti a conoscenza dei piani di un imminente rastrellamento dell’intera comunità ebraica, i danesi si opposero eroicamente e per quattordici giorni - dal 26 settembre al 9 ottobre 1943 - assistettero e nascosero i loro compatrioti ebrei aiutandoli a fuggire in Svezia con ogni tipo di imbarcazione. Così, 6500 ebrei su 7000 riuscirono a salvarsi dai campi di concentramento e quindi dalla morte. Il libro ricostruisce la storia di queste due settimane e di un esodo straordinario. Valentina Pisanty nel volume L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo(Bompiani) affronta un tema che purtroppo periodicamente si ripresenta alle cronache. Sembra un fatto ormai inconfutabile, eppure, nonostante testimonianze e prove, qualcuno ha sostenuto e ancora sostiene che gli ebrei uccisi nei lager nazisti non furono sei milioni ma molti meno. Altri ancora ritengono che le camere a gas siano solo un dettaglio della storia e che quindi non bisognerebbe occuparsene più di tanto. C’è addirittura chi afferma che la Shoah sia un’invenzione della propaganda alleata, sostenuta dall’internazionale ebraica, e che “ad Auschwitz sono state gassate solo le pulci”. Di fronte ai negazionisti si può scegliere di relegarli, senza analizzarli, nella categoria delle aberrazioni della psiche umana; oppure, come fa l’autrice, ci si può soffermare sulle strategie argomentative da essi adottate a sostegno delle loro tesi, per smascherarle.
Da segnalare, infine, il provocatorio saggio di Elena Loewenthal Contro il giorno della memoria(ADD) nel quale l’autrice s’interroga su cosa stia diventando il 27 gennaio. Loewenthal parla di cerimonia stanca, contenitore vuoto, momento di finta riflessione che parte da premesse sbagliate per approdare a uno sterile rituale in cui le vittime della Shoah finiscono per essere esibite con un intento apparentemente di commiserazione, in una sorta di risarcimento che però si mostra del tutto inadeguato. Per contro, l’autrice sostiene che la memoria brandita in questa data non appartiene solo degli ebrei, ma all'Europa intera, e da questa dovrebbe venire elaborata e fatta propria, oltre la retorica e l'errore di chi per un giorno soltanto prova ad alleviare il peso che grava sulla coscienza civile, per alleggerirne l’insopportabile senso di colpa.(©L'Osservatore Romano – 26 gennaio 2014)