Auschwitz-Birkenau
Un giorno chiesi a mio padre: papà ma abbiamo un albero genealogico? Vorrei sapere chi eravamo. Mio padre: so solo che abbiamo origini ebree…molti italiani hanno origini ebree, i nostri antenati erano degli Ebrei. M’informai…non riuscii a trovare molto, non sapevo bene come fare, ero piccola…vivevamo all’estero, in Marocco e mi ero ripromessa che da grande, tornata in Italia avrei fatto le mie ricerche. Le ho fatte e papà aveva ragione. I miei antenati erano Ebrei. All’età di 23 anni circa decisi di andare in Germania 10 giorni, volevo vedere Berlino, avevo letto “I ragazzi dello zoo di Berlino”, avevo studiato tutta la storia sul muro di Berlino e per questi motivi volevo farmi un giro. Poi riflettendo ho pensato che erano futili motivi, Berlino di certo meritava di più, così con un amico partimmo. Furono 10 giorni di musei, di quartieri, di birra e di storia. Questo viaggio poi prese un’altra piega, qualcosa ci portò a visitare un famoso museo, potete già capire quale, io lo chiamerò come i tedeschi: “Il museo degli Ebrei”.
Scusi signore ci siamo persi volevamo visitare il museo….e mostro la cartina al poliziotto. Si signorina ho capito, siete Ebrei, beh siete vicini.
Non capii quel siete Ebrei, ma quel signore mi fece un dolce sorriso malinconico. Arrivammo ed entrammo. Un museo della storia sullo sterminio? Ma come? Ero arrabbiata, confusa e ripensai alle parole di mio padre: i nostri antenati erano Ebrei. Visitammo il museo in completo silenzio, non zitti, silenzio, quello vero, che ti soffoca ogni singola parte del corpo. Poi arrivammo al Libro, si il Libro Nero, quello della morte. Lo sfoglio? Cerco il mio cognome? Lo sfogliai e trovai pagine e pagine di Marotta. Il mio cuore si fermò qualche secondo…andammo via, restammo in albergo e non uscimmo. Il giorno dopo decidemmo che dovevamo andare in Polonia, ad Auschwitz, non avevamo tempo per visitare i campi di concentramento in Germania, scegliemmo quello, purtroppo, più famoso. Andammo a Cracovia, bellissima, colorata, pulita, tutti estremamente gentili e lì per caso in un museo riuscimmo a vedere la Dama e l’ermellino, che emozione, ricordo ancora: ma è lei? Nooooo..è meravigliosa! Due pali di fronte ad un quadro semplicemente armonioso. Poi, purtroppo, ho solo brutti ricordi. Il giorno seguente prendemmo il treno della deportazione. Quando arrivammo alla stazione e ci dissero: dovete prendere quel treno lì, quello porta al campo, io esitai a salire, non avevo ancora capito che era tutto vero? Beh capii subito come misi piede su quel treno che sicuramente non era uno di quei vagoni, ma i binari si….ce ne accorgemmo all’arrivo. Ricordo che faceva molto freddo, fuori e dentro di me, penso che in quel posto faccia sempre freddo, non so se ci sia mai arrivato il sole. C’era la nebbia, tutto era grigio, isolato nella completa solitudine. Mi sentii in colpa, perché non poteva essere una giornata turistica, una visita turistica, pensai di aver sbagliato, di mancare di rispetto. Arrivammo alla meta, quella del non ritorno, sul cartello c’era scritto Oswiecim. Scesi dal treno percorremmo una lunga strada, soli, muti, quel luogo ti incute silenzio. Arrivammo davanti al cancello e quella scritta ci devastò, pensammo tutti e due: ma allora esiste, è tutto reale. Entrammo da quel cancello e da allora quel giorno divenne uno dei più tristi e cupi della mia vita, lo ricordo come se fosse ieri, non potrò mai dimenticarlo. Varcammo il cancello e poi…le stanze, non erano stanze, i letti, non erano letti, le docce, non erano docce, i cortili, non erano cortili, i pozzi, non erano pozzi, le torri, non erano torri, le strade, non erano strade, gli uffici, non erano uffici, e ancora e ancora…era reale nell’irreale. Ricordo quando entrai in una sala e dietro una vetrina di vetro cercai di mettere a fuoco cosa fosse tutta quella roba ammassata, occhiali? Poi la seconda vetrina, scarpe? Poi la terza, vestiti? Poi l’ultima, capelli? Si capelli. Piansi e a singhiozzi, dovetti uscire. Si sentiva un senso di morte reale, “vivente”. Finito il giro del campo, con pochissima forza e coraggio ancora in me, volli entrare in un’ultima stanza, enorme, la più grande, la più, a prima vista, normale, mi girai e capii che ero nello spazio prima di finire nei forni, erano lì, aperti, in fila davanti a me, pensai…ora li conto, non ci riuscii, uscii di corsa a vomitare…Decidemmo di andare via, il campo era così grande, tanto grande da riuscire infatti a tenere rinchiusi un numero spropositato di persone, si perché basta dire Ebrei, persone…persone! Non riuscivo a camminare, mi avvicinai alla rete altissima con il filo spinato e lo sguardo andò ad una torretta. Chiusi gli occhi e cercai di trovare un pensiero felice, non lo trovai, ma come potevo avere la presunsione di trovare un pensiero felice in quell’inferno. Mi dissi: si l’inferno esiste ed è sulla terra. Arrivammo al museo, lì dentro cercai di riprendermi…non ci riuscii le lacrime scendevamo…scendevano e non riuscivo a fermarle. Riprendemmo quel treno e l’unica cosa che riuscii a dire fu: le foto tienile tu io non le voglio. Arrivati a Cracovia andammo in una Sinagoga e rimanemmo in silenzio, seduti e profondamente segnati. Quel luogo come purtroppo tanti altri e quel periodo storico può essere considerato solo un grande momento di oblio dell’essere umano.
di Emanuela Marotta, viaggio con Simone Cupini