“La poesia bisogna sentirla, non capirla.” (Guareschi da “Diario Clandestino” pag.35)
Ho una “passione” segreta per Giovannino Guareschi scaturita inizialmente dai film tratti dalle sue opere, in particolare dalla saga “Peppone e Don Camillo”, poi dalla lettura dei suoi libri e non solo. A poco a poco ho apprezzato l’uomo che faceva satira politica, a cui alcune “denunce” sono costate il carcere e non sotto il regime fascista ma proprio nei primi anni dell’Italia democratica .
Guareschi sapeva colpire a destra e a sinistra con i suoi articoli pungenti nel “Bertoldo” prima, nel “Candido” poi, e con i suoi molteplici racconti. Non temette infatti le grane che gli vennero dal dire apertamente verità scomode: le polemiche con il presidente Einaudi per una vignetta sul “Candido” gli costarono nove mesi di carcere che si andarono ad aggiungere agli altri dodici, comminatigli per la pubblicazione delle lettere autografate da De Gasperi in cui lo stesso avrebbe chiesto agli inglesi un’azione di bombardamento allo scopo di eccitare gli animi alla rivolta contro i nazi-fascisti. Pena scontata con testardaggine e senza volersi abbassare a chiedere la grazia, in 13 mesi e 9 giorni, cioè fino al raggiungimento degli sconti previsti per buona condotta.
Nelle storie che raccontava Guareschi c’è un realismo tangibile, selezionato dalla vita di tutti i giorni dei paesi emiliani del dopoguerra, nei quali sapeva vedere e descrivere le sfumature dei gesti e dei pensieri di un popolo diviso fra comunisti inneggianti la rivoluzione e democristiani attaccati alla tonaca e al campanile. Storie viste, forse, con un po’ troppa giuliva illusione di un mondo sempre buono e disposto alla comprensione. Vicende umane narrate come lo scorrere del grande Fiume che costeggia i paesi della bassa e placido e indifferente porta tutto verso il mare e che, spesso, per l’imprevedibilità della vita, diventava lui stesso protagonista.
Guareschi non fu solo Peppone e Don Camillo: nel 1963 realizzò un cortometraggio dal titolo “La rabbia” curato insieme a Pier Paolo Pasolini, il nobile intento era quello di commentare fatti di cronaca con ottiche diverse da destra e da sinistra, ma il lavoro ebbe scarso successo e poca risonanza. Qualche anno orsono ricomparve, restaurato a un Festival del cinema, magicamente solo nella parte riguardante il regista, i commenti “scomodi” di Guareschi erano stati tagliati. Ancora, dopo tanto tempo, risulta difficile accettare la sua voce “fuori dal coro”. I suoi articoli gli avevano attribuito l’etichetta di fascista, io non so se lo fosse, di certo era un uomo scomodo, capace di assumersi personalmente la responsabilità dei propri gesti e delle proprie parole, capace di andare sempre contro corrente, di analizzare e giudicare qualunque atteggiamento o azione che si rivolgesse contro “la persona” da qualunque parte venisse. Maggiormente se la prese con gli appartenenti al partito comunista, è vero, coniando anche un termine polemico per definirne gli aderenti: i “trinariciuti.” Cioè persone con tre narici, non umani nemmeno nei caratteri somatici, cercando così di ridicolizzare chi segue solo le direttive del partito senza usare il cervello. Criticava questo modo di “non essere” così come era stato ostile nei suo diari al regime tedesco che lo aveva internato dopo il 1943. Non dimentichiamo infatti che Guareschi è stato in un lager nazista per quasi due anni. Arrivato a Czestochowa, sotto gli occhi delle guardie un bambino gli offrì una mela su cui Guareschi vide il segno dei dentini e pensò al figlio lontano. Scrisse in seguito “Lo zaino non mi pesa più, mi sento fortissimo. Lo debbo rivedere, il mio bambino: il primo dovere di un padre è quello di non lasciare orfani i suoi figli. Lo rivedrò. Non muoio neanche se mi ammazzano!”. (da “Chi sogna nuovi gerani? Autobiografia” pubblicata postuma a cura dei figli nel ’93).
E non morì, soprattutto non morì il suo animo ribelle, conservò vivo lo spirito d’osservazione e l’occhio critico dimostrandolo ampiamente nel dopoguerra. Andrea Baroni che, alternandosi al colonnello Bernacca, ci ha raccontato per tanti anni le previsioni del tempo, lo ricorda come compagno di internamento. Racconta che ricevevano acqua calda al mattino. Poi una sbobba di rape (la domenica fiocchi d’avena) 5 patate lesse e un pezzo di pane. Il cibo era scarso, ma in due anni, con precisione tedesca, non è mai saltata una razione. In quanto ufficiali che si erano rifiutati di collaborare, Hitler li definiva traditori e internati militari, non prigionieri, così la Croce Rossa non poteva intervenire sui termini della prigionia, ma di contro non erano costretti a lavori forzati, avevano molto tempo libero e, per non oziare, il grande Guareschi pensò di tenere occupati i prigionieri. Racconta Baroni: “A Sandbostel: Giovanni Guareschi baracca 29, Andrea Baroni baracca 28. Era bravissimo, faceva teatro con i prigionieri. Un giorno lo fermo: “Potrei recitare anche io?”. Mi guarda: “Con questa voce dove vuoi andare? Non ci sono gli altoparlanti a teatro!”
Nonostante il grande successo di pubblico, gli intellettuali radical chic e la critica lo snobbarono, sottolineando il suo linguaggio semplice, le sue storie troppo “naif”. Solo una rivisitazione “postuma” lo ha ampiamente rivalutato. Guareschi non era un semplice umorista, ma un uomo che aveva saputo affrontare disagi, tradimenti, (non ultima l’infondata attribuzione al servizio della CIA) e riusciva a portare nei suoi racconti le vicende umane che lo avevano segnato profondamente. La rivista “LIFE” lo definì "il più abile ed efficace propagandista anticomunista in Europa". Basti ricordare per esempio il manifesto elettorale che diceva “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no.” (Manifesto elettorale 1948, da Mondo Candido 1946-1948, a cura di C. e A. Guareschi) Indro Montanelli che ne fu amico personale ebbe a dire : "C'è un Guareschi politico cui si deve la salvezza dell'Italia. Se avessero vinto gli altri non so dove saremmo andati a finire, anzi lo so benissimo".
Guareschi era nato a Fontanelle di Roccabianca il 1º maggio 1908, giornalista, scrittore, umorista, disegnatore, vignettista ha pubblicato 20 milioni di copie in 80 lingue con oltre 100 milioni di lettori in tutto il mondo, eppure fu circondato da tanta solitudine culturale e istituzionale al momento della sua morte, avvenuta a Cervia dove si trovava con la figlia e il nipote nell’estate del 1968. Pochissime le personalità che si recarono al paese per le esequie. Enzo Ferrari fu uno dei pochi illustri ai funerali, a fargli apprezzare l’opera di Guareschi era stato proprio il figlio Dino,scomparso già da una decina d’ anni, ma per il quale portò a vita il segno del lutto sul viso.
“Anche Giovannino Guareschi oramai riposa al cimitero dei galantuomini. È un luogo poco affollato. L’abbiamo capito ieri, mentre ci contavamo tra di noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita delle due mani.”
Baldassarre Molossi, storico direttore della Gazzetta di Parma terminò con queste amare parole il suo articolo il giorno dopo i funerali. Spero serviranno queste poche righe a far conoscere, soprattutto ai più giovani che avranno la pazienza di leggere, un bravo scrittore che seppe trasfondere tanta umanità nei suoi libri, un uomo caparbio che pagò sempre in prima persona le sue scelte, affrontando grandi battaglie e senza mai ricavarne un soldo bucato, in un tempo in cui in Italia ci si occupava di politica per passione e non per denaro e ci si animava al punto da avere il coraggio di difendere e propagandare le proprie idee.
L’Unità ebbe a scrivere il giorno successivo alla sua morte che era morto uno scrittore che non era mai nato. Io rispondo oggi con un motto che fu di Guareschi nel Candido “Contrordine Compagni “