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Molte sono le manifestazioni che in questi giorni celebrano il centenario della scomparsa di Giovanni Pascoli; così molte sono le pubblicazioni editoriali che ricordano uno dei più celebri poeti italiani. C’è però qualcosa di irrisolto e ancora oggi poco indagato nella figura del cantore della Cavallina Storna e di altre pregevoli poesie, ed è il rapporto che in vita Pascoli mantenne con la Romagna e con Bologna in particolar modo. Se da romagnolo, come spesso accade ai grandi romagnoli (vedi Fellini) in vita non ebbe grande considerazione tranne che alla sua morte quando il comune di San Mauro si disse disposto ad accettare le spoglie del poeta e di contro la sorella Mariù decisa a non riconoscere la terra d’origine che troppo aveva avversato Giovanni, decisa e alla fine vincitrice a seppellire il fratello nella patria d’adozione: la toscana Castelvecchio; con Bologna la diatriba pascoliana è ancora aperta.
Giovanni Pascoli è stato per diverso tempo e a più riprese cittadino bolognese a tutti gli effetti: prima come studente ribelle, fuoricorso, sorvegliato speciale dalla polizia politica, in prima fila nelle manifestazioni internazionaliste, tanto da prendersi tre mesi di carcere; poi come professore alla cattedra di Grammatica Latina per un solo anno passato a dirigere infine la cattedra di Letteratura Italiana per cinque anni per sostituire un altro gigante della nostra lingua: Giosuè Carducci. Ed è in questi anni 1896 – 1906 che la figura del poeta romagnolo assume contorni controversi, discutibili. In principio Pascoli si definiva un socialista, ammiratore di Andrea Costa, quel Costa che nel 1879 proprio sotto gli occhi dei bolognesi fu arrestato per aver esaltato la figura dell’anarchico Giovanni Passannante, l’attentatore di Umberto I. Poi, però, da socialista internazionalista, Pascoli si proclamò fautore della guerra coloniale intrapresa da Giolitti con un intervento “La grande proletaria si è mossa” che scatenò l’ira dei bolognesi e di certo socialismo militante. Tale intervento scatenò un’ondata di antipatia accentuata da un senso diffuso di tradimento. E proprio Bologna ne risentì più di altre città, infatti due mesi prima della pubblicazione dell’intervento di Pascoli, proprio a Bologna s’era tenuto un grande sciopero contro l’intervento in Libia che aveva paralizzato per intero la città. Così il discorso di Pascoli sembrò una coltellata alla schiena che i bolognesi non hanno mai perdonato. Hanno perdonato sì tante altre cose a Pascoli, come il fatto di essere la seconda scelta alla cattedra di Letteratura Italiana all’Alma Mater dopo il rifiuto di D’Annunzio, hanno perdonato il suo carattere piuttosto solitario e umbratile che lo faceva vivere separato a Mezzaratta, sul colle dell’Osservanza accudito dalla sorella, ma non poterono passare sopra il suo inno alla guerra. Così quel romagnolo atipico, insensibile alle donne, paffuto che viveva sotto l’ala di una sorella onnipresente e invasiva divenne figura dubbia non solo per i bolognesi, ma anche per i romagnoli e buona parte dell’intellighenzia socialista dell’epoca.
Oggi a cent’anni dalla morte però, noi che abbiamo studiato le sue liriche, che spesso ci siamo impossessati delle sue belle parole, non possiamo che omaggiare il poeta con un grazie sentito e un ricordo partecipe.
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