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Giovanni Pascoli: note per una trasfigurazione della natura

Creato il 28 novembre 2011 da Sirinon @etpbooks

“…Il poeta è poeta, […] A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra…” (da “Il fanciullino” G. Pascoli).

Nato nel 1855 a San Mauro di Romagna da una famiglia da una famiglia benestante, il piccolo Giovanni aveva solo tredici anni quando suo padre venne ucciso mentre tornava a casa. La famiglia andò disgregandosi mentre Giovanni con caparbietà terminò gli studi all’Università di Bologna, ottenendo una cattedra a Matera e poi a Massa, non prima di aver superata e pagata con 100 giorni di galera l’epoca dell’infatuazione politica che lo vide vicino a certi atteggiamenti anarchici. Iniziata la sua carriera di docente universitario, passò da una città all’altra senza mai legarvisi ma preferendo, quando possibile, fare sempre ritorno al suo Appennino, prendendo dimora in Garfagnana a Castelvecchio, nel comune di Barga. Morirà giovane, a soli 56 anni, complice l’abuso di alcool dovuto alla sue sempre più marcate depressioni che avevano pesantemente minato il suo fisico.

Impossibile racchiudere i libri di poesie del Pascoli in poche righe se non ricordando come per lui la poesia fosse rifugio dalla realtà oggettiva e unico interlocutore per l'animo, per quella realtà intima e personale tanto da divenire condivisibile soltanto con la natura che nel suo mutarsi giornaliero o stagionale, sembra porre e riproporre tutti gli indizi di una comprensione che è complicità. Non casualmente nel manifesto della sua poetica ci riconduce attraverso una sensibilità istintiva, a riappropriarci di pochi e intensi sentimenti che interrogano la realtà, scoprendone pieghe nascoste e talvolta risposte celate nel perpetuo miracolo della natura. La natura diventa terreno di indagine, diventa luogo di scontro tra la paura del futuro e la certezza di ritrovarvi un nido ove ricostruire una serenità interiore, anche se fugace. Una natura, compagna fedele di una solitudine umana e sociale che lo vedrà richiudersi tra i fantasmi che trovano quiete solo nelle forme, negli odori e nei suoni di un universo che gli parla con voce ininterrotta del proprio dolore. Gli parla di quella lontananza che non è unicamente distanza dal bello e dal buono, ma diviene distanza dal resto degli uomini, i cui soli nomi e corpi oramai alla terra sono tornati.

Lasciati presto i toni accademici ed estetici della poetica, tipici di quell’epoca ove prima il Carducci e poi il D’Annunzio avrebbero tracciato le linee maestre da seguire, il Pascoli riscopre in un apparente minimalismo d’argomenti, la profondità del sentire umano. Ad esempio ne “L’assiuolo” dove l’uso dell’onomatopea sarà elemento per individuare nei rumori della natura l’atmosfera del nostro stato d’animo che poi, come in “Nebbia”, diventerà anafora, quando, con una filosofia quasi animistica, gli elementi naturali verranno chiamati, con familiarità “..tu nebbia impalpabile e scialba, tu fumo che ancora rampolli, su l'alba…”. Pascoli chiederà sempre più alla natura di dargli conforto per quel canto che mai si zittisce de “La cavalla storna”, manifesto del dolore personale che diviene dolore universale, lontano dal suono dolce de “Le ciaramelle”, dolore che si chiuderà, in quella morte che annienta tutto meno che il ricordo, come in “Digitale Purpurea”: “ …E di’: non lo ricordi
 quell’orto chiuso? i rovi con le more? i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
 misterioso, con quel fiore, fior di…?»«morte: sì, cara»…”



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