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GIOVANNI RAMELLA BAGNERI – ARMAGEDDON E DINTORNI. POESIE EDITE E INEDITE (a cura di Gilberto Isella e Tiziano Salari) - INSULA 2011
Giovanni Ramella Bagneri (1929-2008) è stato un autore troppo anomalo per la nostra poesia contemporanea. Ne è la prova l’insolito destino editoriale delle sue opere. Dopo la pubblicazione di un volume da Guanda (Muro della notte, 1978), l’inserimento nell’Antologia Poesia degli anni Settanta a cura di Antonio Porta (Feltrinelli,1979) e l’uscita presso Mondadori di Autoritratto con gallo (1981), solo piccoli editori (tra cui soprattutto la Forum del compianto Giampaolo Piccari, della quale prima o poi bisognerebbe parlare, ricordando il catalogo ricco di nomi considerevoli, nonché la capillare ricognizione poetica effettuata dai volumi regionali ) si sono interessati alla sua poesia. Senza contare che dal 1988 fino alla sua scomparsa non sono apparse pubblicazioni, anche se Ramella Bagneri ha continuato a scrivere, nella sua solitudine. Ed occorre ricordare anche l’intensa attività di critico di poesia sulle pagine della rivista “Uomini e libri” diretta da Mario Miccinesi tra gli anni Settanta ed Ottanta.
Risulta quindi particolarmente degna di attenzione l’uscita di questo volume, Armageddon e dintorni. Poesie edite e inedite, a cura di Gilberto Isella e Tiziano Salari, che firmano due eccellenti saggi sull’opera di Giovanni Ramella Bagneri. Un’opera – si diceva – anomala, ma anche magmatica, ciclica, visionaria, ultima. Ciò che colpisce è l’inesauribile potenza immaginativa dei versi, la loro valenza allegorica in uno scenario in cui l’irreparabile è ormai avvenuto e non può esserci più alcuna redenzione. Come afferma Salari, “l’uomo è già finito. La rappresentazione ha inizio nel lutto della sua scomparsa” e la modernità è da intendersi come “epoca finale”. La conseguenza è la maschera, la perdita di ogni realtà autentica, lo sdoppiamento tra il linguaggio e le cose : “Io non so dove esistano le cose/ […] io non so dove esistano eppure le chiamo, le chiamo” (“Bambina nel cortile”). La Parola non c’è, ci sono solo fantasmi di parole, “Anche il Libro, l’universo/del Libro, il suo formidabile enigma,/come noi, come tutto/qui si sgretola, frana”. Giovanni Ramella Bagneri non teme di usare un lessico semplice, molto diretto, tuttavia l’urgenza visionaria ed apocalittica riesce spesso ad incidere in modo assai efficace nella costruzione e nel ritmo dei testi. Tutto sa di ultima voce, una voce orfana, che ritorna, che non si spegne mai del tutto, che è costretta a ripetere il proprio lutto, la propria deriva da un’origine ormai perduta.
La storia è avvolta dalle tenebre, il suo sviluppo non è lineare e restano soltanto macerie che sono parvenze, come in un teatrino crudele che prolunga incessantemente il proprio non senso e la propria agonia: ciò che Salari chiama efficacemente la “carnevalizzazione della Modernità”, nella quale l’orrore trova espressione nel suo capovolgimento estremo. E Gilberto Isella sottolinea come nella rappresentazione di Ramella Bagneri “tempo, spazio e racconto investono le grandi narrazioni mitiche classiche e cristiane, dalla cacciata dall’Eden in avanti, per poi riversarsi sulle brutali devastazioni del mondo contemporaneo”. Tra l’altro Isella rileva alcune interessanti affinità col grande poeta bosniaco Nikola Sop, autore di Mentre i cosmi appassiscono, volume recensito a suo tempo su questo blog. Tali affinità – precisa – non riguardano “l’afflato mistico ‘esplicito’” di Sop, ma “la presenza di un poeta-testimone catapultato nell’enigma cosmico e impotente a decifrarlo”. Ecco dunque il carattere “spettrale” dell’opera di Ramella Bagneri, in cui l’io poetante sparisce, diviene invisibile, ed ascolta – come afferma ancora Gilberto Isella - “voci che fuoriescono da un’eterna notte, da un coro di morti, come succede nel celebre dialogo leopardiano ‘Federico Ruysch e le sue mummie’”.
Mauro Germani
STORIA DEL SOLDATO
XII
PERCUSSIONE II
Il cavo della notte, i passi
in cerchio dove cadono domande:
chi sono? dove sono?
ma ancora niente in questo luogo
che si sdoppia, nel sogno che si sdoppia,
che si fa uno, poi mille,
o la stella che cala verso oriente,
forse l’ultimo segno del destino,
e già l’apparizione
nello spiazzo ghiaioso,
la nascita del ritmo nelle tempie.
Ha la clessidra in mano,
accenna verso oriente.
Fa nascere il tempo, lo accelera,
lo rallenta improvviso, lo sospende.
Ancora il ritmo, l’affanno.
Di nuovo il vuoto, il silenzio.
La stella cadente arde bianca,
illumina la pianura.
Il ritmo cieco rinasce,
cresce nella mente, travolge.
DON CHISCIOTTE
47
INCUBO DELL’ALTRO
Con la mia stessa faccia,
stessa andatura stessi gesti:
entra a casa mia, è accolto, è al caldo,
ora è alla finestra con mia moglie
e i bambini: guardano fuori e ridono,
giorno che sta finendo,
neve che piano comincia a cadere:
faccio segni: ma vedo
i loro sguardi duri, ostili, e so
che staranno a fissarmi
finché non sia scomparso.
IL CAVALIERE UBRIACO
VIII
COMMIATO
Il sole cala dietro le montagne
e non esiste già più.
L’autunno sfocia in un quieto inverno
ed è finito per sempre.
Ultimo luogo e ultimo tempo: vuoti.
Anno che si conclude nella pace,
cielo cristallo con nubi dipinte,
meravigliosa bolla iridescente
che protegge questo teatrino
del mondo: ancora per poco, per poco.
Ci muoviamo qui, forse alludiamo.
Ma perdiamo forza, consistenza,
siamo solo più ombre nel crepuscolo,
ci confondiamo con l’ombra, col freddo.
Fatica di durare,
di trattenere insieme con parole
ciò che deve sfuggire,
disperdersi nel vuoto. Il nostro sogno
resiste appena, è stentato. Ormai siamo
e non siamo. Da dove, verso dove,
mai l’abbiamo saputo. Addio, addio.
DA UN’ALTRA BABILONIA
Altrove, forse in un altro
tempo, il Libro,
nell’altro, nel doloroso
abbandonato-perduto luogo – tempo,
chi pascolava greggi
sotto segni certi, sotto caldi
occhi-finestra era
nel Libro, lui sì era
nell’albero del vento
era nel profondo! Ma qui
la Parola
vuota, il suo alone
di luce nera, da abissi
il suono
neutro, nella polvere
questa, l’altra città, perduta, il sogno
della Parola, di una
città che si cerca, si sfugge:
ma parlare del Libro
e di tombe
vuote, di una caduta, antica,
di morti, di parole
ritornanti, del loro
alone, di qualcuno
che parlava di tombe
vuote, di pietre smosse,
di tempo lacerato, del suo suono,
parlare
di profeti, di fiumi
notturni (riemergono
talvolta, rapinosi),
di stelle spente, del cielo
alto, di quello
profondo, di costellazioni apparse,
Rosa Spada Diamante
Labirinto, di una città umiliata,
estranea, dell’altra,
la città dell’anima, parlare
della tomba vuota, del dio oscuro:
trattenere l’antica lingua, il suo
suono (qualcuno, là, ha raccolto polvere,
se ne ciba tristemente, va
ora alla rupe, alla tomba, alla stanza,
apre il Libro, lo sente
perdere significato, vita),
trattenere
lo stridore del cielo
squarciato, stupefatto, la grumosa
stella rossa, il suo spegnersi, l’alone
che perdura, l’incendio del roveto
montano, clamoroso,
dell’altro, ciclico, profondo, il suo
senso e spazio: ma segni,
ora, che tramontano,
luoghi deserti, rovine,
non visitate, rupi
notturne e grotte e tombe senza offerte,
vuote da sempre, ancora
in attesa.
Lunghissime frane: profonde.
Luogo che si sgretola.
Vento spazio? Non più.
La Parola! Riempiva
della sua forza quel cielo,
si spegneva, lasciava
il suo alone. Una tomba
accoglieva l’Oscuro,
rinasceva la città dell’anima.
Qualcuno stava nella notte, aveva
radici e fronde, stormiva,
era profondo, era vasto, creava
spazi sconfinati, il loro suono.
Astri: segni. Roveti
Canori, in fiamme. Destini.
Luogo che frana: da sempre.
La città, il suo spettro. Senza suono.
La Parola? Sì, vuota.
Ritorna dal profondo, dalla
Polvere: opaca. Il dio,
come perde significato, perde
suono, alone! Non più,
ora, che un sogno stentato,
difficile. Anche il Libro, l’universo
del Libro, il suo formidabile enigma,
come noi, come tutto
qui si sgretola, frana.
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