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Giovanni Ruccia e La Scena giudiziaria

Creato il 29 marzo 2011 da Cultura Salentina

SINGOLARE OPERA EDITORIALE DI UN GIUDICE PUGLIESE

Giovanni Ruccia e La Scena giudiziaria
1. Non cercare di diventar giudice.

 

La giustizia oggi è malata, la giustizia fa schifo, la giustizia  è ingiusta, ti fa sconfinare nella rabbia o nella rassegnazione,  o, peggio, nell’indifferenza, tanto le cose vanno così e non si possono cambiare.  E invece no. “ Io vi scongiuro di essere indignati”, – diceva Martin Luther King  cercando di scuotere la gente dall’indifferenza, e parlava di un’indignazione morale, l’unica che non fa sconti su nulla e a nessuno, che dà e toglie, riconosce e nega, in nome della giustizia.

La Giustizia, diceva Sergio Zavoli, è  una parola tra le più spese e gelose, nel cui nome l’umanità ha profuso tesori di sapere, pagato tributi di sangue, messo a prova virtù personali e ordini sociali, nutrito ideologie e sconvolto sistemi. E’ una parola mitica, virtuosa e terribile, saggia e ribalda, pacifica e violenta, tra le più pronunciate,per  invocare, esigere, dirimere, restituire. non c’è uomo, stirpe , popolo, civiltà, che non abbiano conosciuto il peso, nel bene e nel male, della giustizia. Su di essa  si può misurare il grado di libertà, di uguaglianza, e di civiltà di un paese in un discorso mai interrotto di poeti filosofi pensatori rivoluzioni politici storici  economisti sociologi …La giustizia è una parola terribile, come la verità disse Saveria Antiochia, la moglie di un agente di polizia ucciso dalla mafia.  E parlando di Giustizia viene in mente Antigone, il personaggio della tragedia di Sofocle, che parla contro la legge del  tiranno evocandone un’altra, non scritta e più alta, oppure il libro sapienziale dell’Antico Testamento, Ecclesiastico: “Non cercare di diventar giudice, se non hai la forza di sradicare le ingiustizie”; parlando di giustizia troviamo esposto in  bella mostra, nella vetrina della libreria  Caffè Letterario  Mangiaparole di Roma, il libro  di Giovanni Ruccia, La scena giudiziaria..

2. La Scena Giudiziaria

La scena giudiziaria : Poesie, Aforismi e Pensieri  di Giovanni Ruccia, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2010, è un libro scritto da un  uomo  che  ha percorso tutto il lungo delicato faticoso  sofferto difficile cammino di giudice ( “il giudizio non è semplice / esercitazione di mestiere/ ma sottende spirito/ di partecipazione, vds. pag. 71), fino al pensionamento. E poi,  con raffinato gusto letterario da magno-greco-japigio ( è  un pugliese di Molfetta , che ha però vissuto e operato a lungo al nord, in Lombardia), navigando nella materia ancora viva,molle e scottante della memoria giudiziaria,  ci fa viaggiare nel mondo aforistico della saggezza,  precetti, massime di vita pratica, verità fulminanti, ( anche  se  un aforisma – diceva K. Kraus – non deve necessariamente essere vero,ma deve superare la realtà”), sul modello inimitabile degli antichi  latini, o, greci; ma talora i suoi pensieri paiono  quasi degli   haiku giapponesi, alla Basho, per la natura e le emozioni che esse suscitano  nel lettore ( “la vita scorre /su fiume di norme /in transito, vds. pag. 22). Ruccia ci  mostra le cose di giustizia viste  dall’altra parte della sponda, ci introduce nella rappresentazione del  rito processuale, che è teatro in senso classico, come lo era – dice lui stesso – la tragedia greca, intrisa di vicende umane  in perenne conflitto , sotto l’occhio severo della Giustizia”. E  lo fa con onestà intellettuale, dirittura morale, ma anche con la coscienza dei nostri limiti, con la fragilità e il rischio di errore che comporta l’essere uomo che giudica  l’altro uomo ( “l’uomo che giudica /il suo simile / non è di più/ può far da tramite/ al suo destino ”, pag.72), e talvolta Ruccia si trova nella foschia del dubbio che disorienta  ( Il verdetto è unico / le ragioni possono essere / tante/ quanto i dubbi / che si flettono nella luce, vds. pag. 75), cerca il filo di Arianna dell’applicazione, il lavoro quotidiano, la concentrazione, anche nell’apparente facilità del processo, quando  tutto sembra scontato, cerca la precisione geometrica  dell’azione che deve compiere ( il fantasticare non si omologa /col raziocinio /ma varca le geometrie /del pensiero, pag. 230), che potrebbe essere l’ultima per qualcuno,definitiva; lui lo sa e lo fa  con grande umanità, con com-passione (la gisutizia in assoluto/ fa i conti con la sofferenza /individuale”, pag.32). Ruccia sa che ci sono certe zone dell’animo umano in cui le pause sono schiarimenti,  sa quando è il momento e l’ora di lasciare il guscio sicuro delle abitudini che ci impastoiano,  quando bisogna sedurre fino alla riflessione estrema. La legge è legge, e va applicata, anche se talvolta è dura e ingiusta. “ Al di sopra della legge /c’è solo la legge/ altrimenti  è  rivoluzione (pag.27)

3. Le solitudini simultanee

Giovanni Ruccia vede le cose della Giustizia in modo diverso dal fosco quadro che  ne viene tratteggiato ogni giorno leggendo i giornali e guardando la televisione, o internet,  oserei dire che le vede con l’occhio del “poeta-giudice”, un po’ come l’Antigone di Sofocle. Anche lui  cerca una legge più alta.  E permane tuttora in lui, anche oggi che non esercita più la professione, una grande energia morale, il senso vivo della fede, della speranza, del riscatto dell’uomo da tutte le sue brutture. Continua ad esserci in lui quella ferma volontà del servitore della legge, che talora si trova a mezza  strada tra il “Processo”  kafkiano e il mondo iperuranico delle idee di Platone.  Per lui “la giustizia vera è orologio senza tempo (pag.43)// la giustizia  va per la sua via/ non è ombra/ e alla luce si rivela” (pag36….) La Casa Editrice “Progetto Cultura” ha saputo intuire che in questo volume ci sono,  nell’uomo–giudice  Ruccia tutte quelle solitudini simultanee, intricate e profonde, che  destano l’interesse di un lettore, e ha voluto proporre al grande pubblico di Roma e d’Italia quest’ultima  opera dello scrittore pugliese, già  autore di diversi altri libri tra cui citiamo “Anelli”(2007), e “Gocce che riflettono”(2009). “Si tratta di  una novità libraria assoluta – mi dicono alla libreria caffè letterario “Mangiaparole” – nel variegato panorama letterario  connesso alla Giustizia in forma aforistica e poetica”. Ed è vero  perché Ruccia  in questo libro ci mette un  entusiasmo,una tensione verso qualcosa che è allo stesso tempo al di dentro e al di fuori di se;  il suo è un tuffo dell’energia interiore, quasi il desiderio dello spiccare il   volo in una sorta di  nuovo paradiso della  giustizia, che sia umana, giusta, pietosa( La pietà è sentimento /che nasce dalla sofferenza /altrui/ non è della legge / dei principi, pag.104). E’ la fede del  credente, di colui che prega  con lo slancio di tutto se stesso,e crede davvero  cristianamente che “il pentimento vero /lustra la strada  lucida/ di lacrime/ e sofferenza (pag.104)

4. La metamorfosi del giudice

Con quest’opera   in cui Il futuro cancella il passato / non l’eco del dolore/ che s’agita per valli /in lacrime(pag.90). Ruccia si osserva, si scruta, si pone delle domande, rivede davanti a sé i volti maschili, femminili, vigorosi, teneri, tristi, spauriti, drammatici che s’incarnano in azioni, diventano destino individuale della sua e della nostra storia. E di botto si scopre poeta, scopre che la poesia è in mezzo a lui, lì nei tribunali, come nei bar di Busto Arsizio,  nel porto peschereccio di Molfetta, in mezzo alla puzza di pesce, o nel vescovado dove approdò tanti anni fa una figura carismatica, fulgida, piena di speranza nel futuro, un poeta, un  santo, come don Tonino Bello, che non esitò a farne dimora ( provvisoria) di prostitute senza tetto, ubriaconi, tossici, gente disperata che non sapeva dove andare. Ruccia  capisce che la poesia non è bla bla bla, roba da salotto,  ma è qualcosa che cammina per le strade, che si muove, che passa accanto a noi, che sta in alto, ma anche in basso, dove crescono fiumi di inchiostro e vermi , come disse il suo corregionale Raffaele Carrieri ( alla malora le carte/  cartigli e scartoffie // E’ follìa, follìa, restare chiuso in un calamaio/ come la seppia del mare / che fa macchie d’angoscia e le sparpaglia”), e allora decide di ascoltarne “le voci”  che riassumono   il mistero di tutte le  cose della vita. La poesia è dentro di noi  e si fa voce e danza, balletto dell’inconscio, una sorta di  minuetto in cui si attua la metamorfosi  di  un giudice  che, riposta  la toga e l’ermellino,  la bilancia e la spada,  si fa crisalide, farfalla leggera che  vola quasi invisibile sulla  “scena giudiziaria”,  e ci conduce sui “luoghi di  giustizia” negli “spazi” della rappresentazione del processo in senso figurale-simbolico- rituale , luoghi che non sono fatti solo di pietra e di mattoni ( Le cose fabbricate cadranno/ ma l’azione sempre si reggerà) “, ma di   :norme ( “La vita scorre / sul fiume di norme /in transito/ quanto più veloce, vds. pag.22)….) di “ etica”( La giustizia non ha famiglia/e amante/ è gemma solitaria”, vds. pag.50). Ed ecco che il giudice Ruccia dice ai suoi imputati, Domani venite con i vostri vestiti migliori, ricchi di luce e di colori, come per un appuntamento con la persona amata. Vorrei essere io la “persona amata”, il vostro giudice, che voi vedete,invece, come il vostro boia,ma sappiate che  “la verità non sempre è unica”.Nulla si edifica sulla pietra,  tutto sulla sabbia, ma noi dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra”

5. Le voci

Appaiono talora  nei suoi pensieri,nei suoi aforismi, nei suoi versi, “Le voci”, quelle sottili voci eduardiane, che incidono i brutti sogni della  coscienza , e si fanno più vere della realtà vissuta, oppure quelle “ veglie a occhi chiusi” di un altro giudice-poeta come Corrado Calabrò ( “Lasciatemi vegliare a occhi chiusi/questa notte introflessa, /incubatrice di voci e rumori) , e allora Ruccia in vorrebbe “per un momento/ essere tarlo / che si insinui/ nella coscienza  della gente, vds. pag. 118). Ma ci sono anche le voci dell’anima: “che imparano a distinguere /melodie tanto diverse dei giorni / le sento al mattino / come la sera per l’indomani/ che s’immergono nel silenzio / delle tenebre / assumendo la veste di giudici ( vds. pag.136).

Pirandello ci parlava con le voci, erano i suoi fantasmi quotidiani, quelli che poi diventavano i personaggi dei suoi  drammi. Ogni sera mi vengono a trovare, – diceva, – e mi assillano, non mi danno tregua. Ma capitava che lo assalissero anche durante il giorno, mentre camminava per la strada. Capitò una volta che alcuni muratori che lavoraravano in via Merulana lo videro appunto fermarsi sotto i loro occhi e parlare da solo. Risero, e si fecero ampi  cenni tra di loro che il povero vecchio non c’era più con la testa. Lui se ne accorse, e disse,  Ma lo sapete che sto parlando con voi, sì propri con voi, che ridete,  con l’intimo delle vostre coscienze?

Anche Giovanni  Ruccia parla con le voci della giustizia, quella giustizia  che non ha età, ha l’età del tempo  che si dà ( vds. pag.135) voci che hanno un’anima, che gli dicono che la giustizia è tante cose tutte insieme : utopia, giudizio, confronto, rito, verità, fallibilità, bivalenza, certezza,ansietà, esame, iniquità. Grandiosità,  Transizione,  ( al momento di decidere / sulla sorte dell’uomo/ mi elevo su di lui // semplice strumento/ di  un disegno ineluttabile, vds. pag.125), tutti titoli delle diverse poesie che compongono la silloge.  “Cielo mare o terra …Rinascita o transizione? Come sta la sua colonne vertebrale, giudice, dopo tante sentenze emesse ? ( “ Il verbo si fa scrittura che non retrocede, pag. 222), La sua schiena si  è incurvata. Ma noi sappiamo che lei può ancora camminare, ballare, volare.  Può ancora farsi leggero come un tempo, può ancora vedere la luce spegnendo l’interruttore. Perché ha trovato la scrittura, l’immaginazione, un’arte fatta di niente, di parole e di sogni, che fa danzare, volare, e talvolta incide più della spada, ma bisogna dimenticare l’uomo  vecchio per ritrovare il nuovo.  “Certe volte dimenticando  ritrovo tutta intera la memoria. Ma ho bisogno di quelle pause, ho bisogno di chiudere gli occhi. ( Quel che vedo non conta / se non sento pag.232)

6. L’ansia di conoscere

“Fanno meno danni cento delinquenti che un cattivo giudice “, disse Quevedo. E Ruccia forse pensa e ripensa a questa massima. Un giudice, un vero giudice deve sapere con esattezza, in maniera immediata, ogni cosa che accade.  E poi la deve ritrovare nelle carte, deve saper  farla “cantare” insieme alla pratica, al fascicolo processuale, ma poi ci sono gli incontri, ci sono gli spazi, ci sono le trasformazioni, ci sono le porte.  (La ricerca apre più porte/ una dopo l’altra /non tutte contemporaneamente pag. 228)

E siamo alla fine  del viaggio della “ Scena giudiziaria”, siamo  alle  “Compresenze”, una raccolta di pensieri, tante perle di saggezza, che attengono alla filosofia, alla teologia, alla sociologia, all’antropologia giuridico-culturale. Ma che cos’è la vita del pensiero, giudice Ruccia?. “ La vita del pensiero è dialogo/ iniziando da se stesso” (pag.213) ricordando che ogni azione costituisce un labirinto di tensioni multiple, e che “c’è sempre qualcosa che  sfugge/ alla comprensione  della vita/ quanto più complessa./La ragione spiega / e quindi serve/ ma non basta / resta ciò che affiora / dal profondo. (pag.216)Anch’io ho vissuto di errori e di incertezze, gli errori e le incertezze talora spuntano all’improvviso e non le puoi controllare, ma possono servirci quanto le certezze che cerchiamo coscientemente.  (Il pensiero non è mai solo / l anotte rimescola le tracce /incise / che permangono relitte, pag. 220).  A me piacerebbe cantare, ci sono popolazioni per i quali l’anima è nella gola, l’individuo non può cantare, se ha perduto l’anima. Allora si sale sul cavallo d’argento dei nostri pensieri alla ricerca dell’anima, ma a me, leopardianamente, “Al di là della siepe non mi riesce di saltare (pag. 227).

Vorrei conoscere, conoscere, accrescere il mio sapere, sono tormentato  da questa sete di infinito, e mi prende come un’ansia di grave limitatezza, e dico socraticamente che so di non sapere. Ma so bene  che “ansia del conoscere è  illusione di infinito (pag. 230).


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