La compagnia baracellare si presentava come una speciale squadra di guardie campestri che, in cambio dei contributi versati dagli allevatori e dai coltivatori, s'impegnava a pattugliare il territorio, a proteggere le attività agricole, a prevenire i reati, a sorvegliare i beni rurali e in particolare a risarcire i danni causati da furti, atti vandalici e sconfinamenti del bestiame.
Giovanni Tolu fu probabilmente il più famoso tra tutti i banditi sardi: si diede alla macchia dopo aver ridotto in fin di vita il parroco del suo paese dal quale, probabilmente non senza motivo, si riteneva perseguitato e che gli impediva di sposare la ragazza che teneva in casa come domestica e che in realtà pare fosse la figlia del pio uomo di chiesa, incline a svaghi non precisamente mistici. Tolu, figlio di umili agricoltori, era stato educato con severità e dureza. Morto il padre, si era trovato a soli diciassette anni, a dover provvedere alla famiglia alla quale, lavorando duramente nelle campagne, era riuscito ad assicurare una modesta agiatezza.
A venticinque anni si era innamorato di una ragazza quindicenne, Maria Francesca Meloni, che prestava servizio nella casa di un ricco e influente sacerdote, prete Pittui, che spadroneggiava nel paese di Florinas. Chiesta la mano della ragazza il prete pose in essere ogni tentativo per scoraggiare il pretendente autorizzando non poche dicerie sul suo conto.
Dopo varie peripezie, il matrimonio venne celebrato nel 1850, ma la giovane sposa, mal consigliata da vicini e parenti e dallo stesso sacerdote, assunse nel tempo un atteggiamento aspro e scostante contrastando il marito su ogni decisione familiare. Le liti sfociarono in una separazione quando la ragazza, in attesa di un figlio, si rifiutò di andare a vivere in una nuova casa che i due avevano scelto di comune accordo. Ne nacque un diverbio dai toni molto accesi nel corso del quale Giovanni schiaffeggiò la moglie. L'intervento del padre della ragazza, che in preda ad un attacco di collera si diede a gettare in strada le masserizie della coppia fece perdere il lume della ragione al Tolu che, impugnato il fucile, minacciò il suocero. Il chiasso attirò una folla di curiosi, arrivarono il sindaco e il prete Pittui che dichiarò che il matrimonio poteva considerarsi concluso. Nelle fredde e buie giornate d'inverno il Tolu, tormentato da dolori alle giunture che attribuiva ai malefici del prete Pittui, pensava a come vendicarsi di quel sacerdote, causa della sua rovina.
Così all'alba del 27 dicembre 1850 lo affrontò mentre si recava a dir messa nell'oratorio di S. Croce e lo ridusse in fin di vita: "Nascosi l'arma sotto il cappotto e tornai ad appoggiarmi allo stipite della porta tenendo l'occhio sempre fisso sulla strada dell'oratorio. Finalmente, verso le sei, vidi il prete che scantonava. Il cielo si faceva sempre più fosco e il sole non era ancora levato. Per le vie non si vedeva anima viva. Le porte delle case erano tutte chiuse, poiché il freddo tratteneva più dell'usato gli abitanti i quali non avevano l'obbligo di lavorare in quel giorno festivo. Avvolto nel suo lungo pastrano dalle ampie saccocce, col bavero alzato, il prete attraversò il breve tratto di strada col capo chino contro al vento furioso che gli soffiava di fronte. Passò come una visione e scomparve. Allora io mi mossi ed affrettai il passo per tenergli dietro. Scantonata la via, studia di camminare rasente le case per raggiungerlo inosservato. Il vento che ci soffiava di fronte gli impediva di avvertire il rumore delle mie pedate. Gli tenni dietro per una cinquantina di passi, e lo raggiunsi all'imbocco del largo detto Funtana manna, in cui a destra la strada fa scarpa in campagna aperta, fronteggiando il villaggio di Codrongianus. Il sito era opportuno perché spazioso e poco frequentato. Giunto a tre passi da lui, tolsi la pistola di sotto il cappottane, gliela puntai quasi a bruciapelo alla nuca e premetti il grilletto. L'arma non prese fuoco, perché il cane non aveva schiacciato il fulminante. Continuai a camminare assieme a lui, sempre alla stessa distanza, e altre tre volte ritentai il tiro. Il colpo non partì mai e il vento contrario impedì che lo scatto del grilletto giungesse all'orecchio del prete. Io era atterrito. […] Feci ancora altri due passi avanti, levai in alto il braccio e con tutta la mia forza lo lasciai ricadere con un manrovescio sulla guancia sinistra del prete, che stramazzò supino. Gli fui sopra come una tigre, gli posi un ginocchio sul petto, lo afferrai colla sinistra alla gola e puntandogli la pistola all'occhio, feci scattare tre o quattro volte il grilletto, sempre invano. Il prete si dimenava in tutti i sensi e mandava sordi rantoli che si confondevano col gemito del vento. Aveva la lingua tutta fuori, gli occhi spalancati, Le sue unghie penetravano nelle mie carni, ma le mie braccia erano di acciaio. […] Nel frattempo dietro di me diverse porte si spalancarono con fracasso. Una dozzina di uomini robusti si lanciarono verso di noi" (E. Costa, Giovanni Tolu, Autobiografia di un bandito sanguinario, Ed. L'Unione Sarda, Cagliari 2005, p. 71-72)
Cominciò in questo modo la lunghissima latitanza di Giovanni Tolu nelle campagne tra Osilo e Sorso nei cui ovili trascorreva le sue ore con il fucile e sa pattada in mano, in compagnia del suo fedele cane. In questi lunghi anni riuscì a diventare una leggenda: terribile con i nemici e i ladri di bestiame, pietoso con i deboli e generoso con i bisognosi, arrivò ad acquistare una enorme autorevolezza. La sua latitanza ebbe fine il 22 settembre 1880 quando si fece arrestare dai carabinieri per evitare una sparatoria e non spaventare la figlia incinta che era con lui. Fu tradotto a Sassari dove si adunò una folla inmensa. Due anni dopo fu celebrato il processo a Frosinone per evitare che l'enorme clamore suscitato in Sardegna dal suo arresto potesse influenzare la giuria. Il caso, seguito da tutti i giornali nazionali, suscitò una grande e appassionata partecipazione. Il verdetto, attesissimo, giunse dopo soli tre giorni di dibattimento: assolto per legittima difesa.