Gioventu’ razzista
di Iannozzi Giuseppe aka King Lear
“Se solo mi amassi, saprei io come prendermi cura di te!”: la frase (che mai aveva detto) gli rimbombava ancora in testa, uguale a un ritornello, a una terribile tortura. Se gl’avessero sparato una pallottola in una tempia gl’avrebbe fatto meno male, di questo Max ne era sicuro seppur con la sola forza della disperazione che l’attanagliava.
* * *
L’aveva vista e subito se n’era innamorato: lei se ne stava tutta sola, col muso imbronciato e le labbra rosee piegate in una smorfia tra il dolore e l’insofferenza. I capelli lunghi li teneva raccolti in una coda di cavallo, alquanto bislacca, pareva difatti uno scopino di mille colori sciupati. Max non ci pensò su molto né poco: l’aveva vista e tanto gli bastava perché decidesse che doveva essere il suo amore. Una donna non ce l’aveva mai avuta, non una tutta sua comunque; era stanco d’essere solo al mondo, come un giocattolo dimenticato nella soffitta. Ma più d’ogni altra cosa era stanco di seghe e immagini muliebri che erano sono nella sua fantasia. Aveva passato da una lunga pezza i venticinque e tutti lo sapevano che era vergine e che con una donna non c’era mai andato veramente: le poche volte che era stato con una ragazza era perché questa era sbronza e si lasciava palpare un po’, ma senza mai lasciarsi tirar via le mutandine. Max lo sapeva che non era un piacione e che non era neanche brutto: molto più semplicemente, quando allo specchio, riconosceva che la sua faccia era insignificante, una faccia che poteva passare tranquillamente inosservata anche se si fosse macchiata del più atroce delitto possibile. Più si fissava allo specchio, più in lui si rafforzava l’idea che era davvero insignificante ogni suo tratto, così tanto insignificante che era come se per l’umanità intera lui non esistesse.
Lei fumava: la sigaretta la teneva ben stretta fra le labbra. Non s’era accorto che aveva il vizio. Se c’era una cosa che non sopportava in una donna era la sigaretta accesa: ebbe un moto di ripulsa, e quasi gettò la spugna prima di tentare a parlarle, ma all’improvviso lei buttò per terra la cicca. E fu proprio quando vide atterrare la cicca sul pavimento che Max prese coraggio e l’avvicinò, confuso, deciso a non lasciarsela sfuggire, perché se avesse fallito lui lo sapeva che non avrebbe scopato per il resto della sua miserabile vita.
Max attraversò la ressa come se tagliasse in due il Mar Rosso, e si portò di fronte a lei, che muta restava fissando solo la sigaretta spenta sul pavimento, quasi fosse un cadavere abbandonato. Prima di parlare, Max si raschiò la gola, ma solo gli riuscì di tirar fuori un mezzo vagito felino tutt’altro che virile. Col volto in fiamme, finalmente gli riuscì di portare i suoi occhi in quelli di lei, che, per tutta risposta, li abbassò provocando in Max una feroce rivolta nelle budella. Un nodo alla gola, un bolo acido che inghiottì sforzandosi di non vomitare, e per giunta sudato marcio… lasciò scivolare una mano sulla fronte in un gesto svenevole, piuttosto femminile, e rimase davanti a lei, in piedi, come una statua di sale.
Rimase così, e fu lei a riportarlo alla realtà: “Che vuoi? Se hai da dire qualcosa, vedi di far presto.”
Max sgranò gli occhi per la sorpresa, per il dolore che quelle parole gl’offersero, parole più forti d’un assoluto silenzio d’indifferenza. Biasciò qualcosa, lasciò schioccare più volte la lingua nel cavo della bocca, cercò di disseppellire qualche parola dalla testa che gli s’era fatta vuota d’un completo niente, e alla fine sputò un ‘ciao’ come un miagolio prolungato, di sofferenza.
“Che hai detto?” E così dicendo s’era già alzata dal divanetto dove aveva accomodato le chiappe. Si guardò intorno, senza badare affatto a Max: detestava quel cazzo di centro sociale, ma non c’aveva i soldi per andare a sbattersi in una discoteca o in un locale alla moda. Fece per sfilare un’altra sigaretta dal pacchetto di Diana, ma s’accorse ben presto che era vuoto. Solo allora si ricordò che davanti a lei stava uno, uno che pareva non ce l’avesse tutte le rotelle a posto.
“Ce l’hai una siga?”
Max scosse il capo, meccanicamente. Poi aggiunse con tutto il nullo coraggio che gl’era rimasto due parole appena: “Cattivo fumo.”
A queste parole, ridicole di per sé, per com’erano state pronunciate, lei prese a ridere con una certa punta d’isterismo: “Tu devi essere fuori dal mondo. Mi sa che sei più fumato di tutti noi messi assieme.”
Max se la prese, ma per quanto gli fu possibile non diede a vederlo. Però sudava come un porco portato al macello. Si grattò la gola, anche se era più arida del Sahara e disse: “Io detesto il fumo.”
”Ah! E allora com’è che te lo passi il tempo?”
Scimmiescamente Max si grattò il capo, passandosi la mano, più volte, fra i corti capelli a spazzola, colorati, rossi come la capocchia d’un fiammifero.
“Ci sono altri modi…”, ma non terminò la frase.
“Sì, certo.” Lei era scazzata, Max lo capiva bene. Continuò a grattarsi ostinatamente la testa, con le unghie che gli ferivano il cuoio capelluto. Era nervoso, teso come una corda di violino, e incazzato soprattutto con sé stesso: non avrebbe mai dovuto tentarci con una così, anche se ormai era troppo tardi per far finta di niente. Ma ciò che lo faceva montare in bestia era che s’era innamorato di quella lì guardandola soltanto. Non era normale, se ne rendeva conto; però non poteva farci davvero niente se era fatto così, alla cazzo di cane.
Bastò un sorriso distratto di lei perché Max le perdonasse il vizio del fumo, e tutto il resto, tutti quei difetti che sicuramente sarebbero emersi se solo si fossero frequentati un poco.
“Soldi ce n’hai?”
“Pochi.”
“Pochi quanto?”
“Un deca.”
“Diecimila lire non sono un patrimonio.”
“Infatti. E devo fare benza.”
”Allora sei fottuto.”
“Ci metto dentro cinque, mai di più.”
”E il resto?”
“Pensavo che magari una birra…”
“Con me? Non sai nemmeno come mi chiamo.”
Max deglutì imbarazzato, dopodiché s’affrettò a presentarsi: “Massimo, ma tutti mi chiamano Max.”
Lei l’osservò per qualche istante, poi decise che sì, poteva stringergli la mano: “A me mi chiamano tutti Lily.”
Se non altro, il ghiaccio era stato sciolto.
“Allora?”
“Una birra qui?” Lily rimase soprapensiero, poi sbottò: “Qui è tutto uno schifo. Nella birra ci sputano dentro prima di passartela.”
“Non può essere…”, ribatté Max con poca convinzione. “Comunque si può sgommare via.”
”Ti ho appena conosciuto”, fece lei civettuola: “non so mica se dovrei fidarmi di te.”
* * *
La prima volta che glielo prese in bocca Max vide le stelle, quasi svenne mentre veniva dentro di lei. Lei gliel’aveva preso tutto in bocca, come se volesse ingoiarlo: e quando la turgidezza del pene si fece giusta per l’eiaculazione, lei solo un poco lo lasciò fuggire fuori della bocca, soltanto quel poco che le serviva affinché il seme di lui potesse inondarle ben bene la gola fino in fondo. Gli leccò poi il glande, lentamente, con studiata lascivia. Max comprese che quello era il paradiso, l’unico possibile per un uomo. Non osava pensare a quanto sarebbe stato bello sbatterglielo nella figa. Poi quando ci provò, addentando l’orlo delle sue mutandine, Lily gli si rivoltò contro graffiandolo, subito scattando indietro per portarsi lontana dalla portata di lui. Con un salto felino balzò via dal letto, lasciando Max con la mascella spalancata e gli occhi rossi di rabbia e incredulità.
“La passerina non si tocca!”, gli berciò lei contro: “Un pompino è una cosa, scoparmi tutt’altra.”
“Perché no?”, si lamentò ostinato Max, con tono lamentoso di bambino. “Perché no?”
“Non siamo così intimi. E non so se mi piaci veramente.”
“Ma l’hai fatto con l’ingoio e…”, replicò allora Max, isterico quasi.
“E allora? Che ti credi? E’ così che mi piace.”
Non si dissero più nulla.
Lily sculettò via dalla camera. Il salotto faceva schifo, come del resto tutta la casa di Max. Guardò il divano tutto slabbrato e sudicio di sudori, di macchie, guardò poi il soffitto grigio (che un tempo doveva esser stato bianco) e sbuffò: l’appartamento faceva venire il voltastomaco, e Max era solo un povero miserabile, uno dei tanti che s’era sbattuto in vita sua, uno dei tanti, giusto un numero che presto avrebbe dimenticato. Era stanca di farsela con dei morti di fame, ma ogni volta ci cascava, forse perché mai un principe azzurro le si faceva incontro; d’altro canto sarebbe stato impossibile anche solo l’illusione del sogno fin tanto che avesse continuato a frequentare locali malfamati e di dubbio gusto. Con pesante stanchezza si lasciò cadere sul divano, ghermì il telecomando e diede vita a un mare di nevischio dentro allo schermo pigiando un pulsante solo. Rimase a fissarlo inebetita.
* * *
Al solito il centro sociale era una congerie di rompiscatole e fumati, di derelitti senza possibilità alcuna di redenzione. Il fumo azzurrognolo delle canne s’univa ai latrati dei cani e alla musica reggae sparata a tutto volume, dando così corpo a un vero e proprio girone infernale. Gettò un’occhiata a due giovani negri: erano sensuali, e senza una lira com’era logico aspettarsi. Intanto Max le si teneva incollato al fianco, tutto affettuoso, uguale a un cane che teme di perdere di vista il padrone. Però Lily aveva già deciso che l’avrebbe lasciato, proprio quella sera.
Quando furono da soli, in un angolo fumoso, glielo disse, su due piedi senza alcun sentimento di dolore. Max non scucì una sola parola. Allora lei glielo tirò fuori e se lo prese in bocca. Qualcuno gli passò accanto e fece finta di niente, anche perché lo spettacolo era tutt’altro che inusuale.
Dopo che fu venuto nella bocca di Lily, con dolorosa meccanicità, gettò un’occhiata all’intorno e comprese che odiava tutti quegli uomini, negri, marocchini, tedeschi, albanesi. Odiava i negri perché erano neri e gli albanesi perché bianchi, e pure quel cazzo di tedesco biondo che tracannava una birra dopo l’altra ruttando come un animale. Odiava la gente, tutta, indistintamente, perché era lì, perché esisteva e sembrava che se la spassasse un casino. Erano dei derelitti, senza alcuna possibilità di farcela, senza neanche l’ombra d’una speranza per minima che fosse. Possibile che nessuno se ne rendesse conto? Possibile che tutti fossero così tanto ottusi da drogarsi e tirare avanti tanto per, e basta?
Lily s’era messa in pista: ballava adesso, ballava e si strusciava contro le patte dei ragazzi. Aveva già dimenticato Max e il suo cazzo. Prese a odiarla per questo. E la odiò ancor di più quando la vide abbracciata a un negro. Era davvero troppo perché potesse sopportare in silenzio. Farfugliò qualcosa ma nessuno lo intese: la cacofonia era troppa perché il suo parlare potesse esser preso in considerazione da orecchio umano. Con le lagrime che gli soffocavano gl’occhi e i singulti come chiovi piantati ben dentro alla strozza, allungò il passo per portarsi lontano e lasciare così per sempre Lily e quell’illusione di felicità che non gl’aveva lasciato in eredità.
* * *
Si svegliò madido di sudore. I polsi erano saldamente legati alla spalliera del letto con un nastro rosso, che si sarebbe detto di seta, non fosse stato per il fatto che era più resistente d’una corda. Gli stava segando i polsi.
La bocca tumida del negro gli stava ancora ingoiando il sesso. E due dita (le sentiva bene) il negro gliel’aveva conficcate su per l’ano. Cercò indarno d’aprire bocca, senza successo: era imbavagliato, ancora. Da quando aveva perso i sensi nulla era cambiato. Non sapeva per quanto tempo era caduto in deliquio, incontrovertibile era però il fatto che il negro stava ancora lì. Le dita dell’uomo gl’affondavano sempre più nel retto, più e più volte. Sentiva la bocca, le labbra tumide di quell’uomo stringersi sul suo cazzo: se avesse avuto voce, avrebbe gridato. Un fiotto caldo lo sentì arrivare: eiaculò nella bocca del negro. Non aveva potuto far niente per trattenersi. Era stata una cosa meccanica. Provò a scalciare: era come paralizzato, anche se non credeva d’esser legato per i piedi anche. Ma la testa nera, rasata, grossa come un melone, quella la vedeva se solo un poco alzava il capo fino a toccare col mento il petto: stava in mezzo alle sue gambe e glielo teneva in bocca per succhiarglielo.
A un certo punto, il negro s’alzò: era completamente nudo, e un’erezione terribile era lì davanti a lui legato e imbavagliato. Era grosso, molto grosso. Adesso l’aveva preso per le caviglie con quelle sue mani nere e forti come tenaglie; scosse il capo furiosamente, ora a destra, ora a sinistra, come un cavallo pazzo. Il negro gl’allargò le gambe a forbice, poi le costrinse a piegarsi a novanta gradi. A quel punto capì e un muto orrore gli si dipinse sul volto. Quando il glande gl’entrò dentro un dolore sordo gli trapanò i timpani: l’affondo invece non lo sentì quasi, tanto fu veloce a metterglielo su per il retto. I colpi ritmici e veloci dei lombi di quel negro lo lasciarono in un men che non si dica privo di forze, pronto a perdere i sensi un’altra volta, forse per sempre, per cercare rifugio nella morte. Sentiva che il suo cazzo era su, turgido: un sudore freddo cominciò a bagnargli il viso. Non poteva essere. Eppure il suo cazzo era su, più duro che mai. Mentre lo prendeva in culo, il suo sesso s’era preso la libertà d’innalzarsi in tutta la sua grandezza: ne ebbe subito orrore. E il negro gli sorrise con le sue labbra nere e grosse, senza smettere di muoversi con preciso ritmo dentro di lui con il suo duro arnese. Ebbe un conato di vomito a quel sorriso, e un altro ancora quando scoprì che dalla sua erezione sgorgava il suo seme, quel seme che credeva sarebbe stato per una donna. E che invece era stato succhiato da un negro, e che adesso se ne usciva da sé, copiosamente. Non poteva essere un semplice fatto meccanico, e questa consapevolezza improvvisa lo gettò nel panico più profondo. Ci mise tutta la rabbia che aveva in corpo per tirare il nastro che gli legava i polsi, tirò fino a farseli sanguinare di brutto, ma le mani non vennero fuori e rimasero ben legate. Chiuse gl’occhi, senza perdere i sensi però. E pensò: “Se solo mi amassi, saprei io come prendermi cura di te!” Perché aveva taciuto, perché non gliel’aveva detto a Lily quando gli stava dando il benservito? Era stato tutto un sogno, o meglio un incubo. Ma gli faceva male lo stesso, più del lungo membro del negro su per il retto, ripetutamente. Gli faceva male nell’intimo, nell’anima, quella frase mai pronunciata. Il silenzio che aveva tenuto, anche se in uno spazio totalmente onirico, era terribile tortura che gli trapanava la testa da tempia a tempia.
Prese a piangere, a occhi chiusi. E attese.
Il negro era nella realtà e nel riflesso dello specchio che stava di fronte a lui, proprio dietro la spalliera del letto dove Max era tenuto legato. Prese a ridere con un occhio gettato su Max e con l’altro sul suo nero riflesso. E dalla sua cavernosa bocca dense nuvolette di fumo tra l’azzurrognolo e il grigio, come di sigaretta.
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