Girovagando attraverso il Festival letterario di Jaipur

Creato il 13 marzo 2014 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

L’edizione 2014 del Festival Letterario di Jaipur era almeno altrettanto frequentata e affollata quanto le due precedenti edizioni e il merito è degli organizzatori, grazie ai quali – a dispetto di un clima spesso inclemente che ha reso la sede (prevalentemente all’aperto) soggetta al vento e alle piogge in un modo abbastanza fastidioso – il programma è andato avanti con pochissimi imprevisti. La coreografia di questa mostra logo-tecnica annuale è molto complessa e fittamente intrecciata, ma il team guidato da William Dalrymple, Namita Gokhale e Sanjoy Roy con grande competenza è riuscito a metterla in scena con tanto clamore ed eleganza. È illustrativo confrontare il pubblico di massa di Jaipur, attento, paziente e generalmente educato, con il pubblico di Delhi, spesso poco numeroso, apatico e distratto in occasione di eventi simili durante tutto il corso dell’anno.

Dopo una salva di apertura da parte del vincitore del Premio per le Scienze Economiche della Banca di Svezia, che prende il nome dal Nobel Amartya Sen, il quale sembra avere poco di nuovo da dire e ora richiama un “governo laico di destra” in India, il festival è andato avanti con sei sessioni contemporanee per la maggior parte dei cinque giorni successivi, includendo una grande varietà di materie, molte delle quali sono ben presenti sugli schermi radar del mondo e dell’India.

La connessione tra la narrativa contemporanea e gli eventi globali non è sempre evidente ed è chiaro che l’immaginazione umana, anche quando è abbondante, trova difficoltà a tenere il passo del carattere fantastico della realtà vissuta giorno per giorno. I romanzi, anche quelli scritti da alcuni dei noti autori presenti a Jaipur, possono facilmente sembrare banali o comuni, quando confrontati con i racconti degli storici e degli osservatori del passato o del presente.

Antony Beevor ha richiamato l’attenzione su molti fatti tragici e orribili avvenuti nella Seconda Guerra Mondiale che hanno portato a concepire come “cattive” le potenze dell’Asse che si comportavano molto peggio rispetto ai loro avversari “democratici”. Egli ha raccontato nel dettaglio le atrocità commesse dall’esercito degli Stati Uniti e dai marines in particolare che, quando erano nel Pacifico, hanno utilizzato le loro enormi capacità industriali e la propria esperienza per massacrare i violenti nemici giapponesi, considerati come subumani. In alcuni casi documentati hanno usato lanciafiamme e trattori per bruciare e seppellire vivi numerosi soldati giapponesi e poi hanno derubato i cadaveri dei loro averi o altre parti del corpo che avrebbero potuto recuperare per tenerle o venderle come trofei di guerra ad altri guerrieri meno “fortunati” che desiderassero dimostrare la propria partecipazione all’azione di guerra. Alcuni dei sedicenti “coraggiosi e fieri” hanno anche fatto ricorso alla bollitura delle teste dei decapitati “musi gialli” per portarne a casa i teschi. Come Beevor ha premurosamente osservato, la storia è una branca della letteratura e non una scienza esatta ed è il motivo per cui sono così sospette le attuali politiche in alcuni Paesi democratici che mirano a proibire “revisioni” e modifiche dei resoconti ufficiali per legge o puntano a limitare l’accesso ai loro archivi per la stessa ragione.

Oscar Guardiola Rivera, il noto scrittore dell’“altro” profondo 11 settembre degli Stati Uniti, vale a dire il golpe del 1973 in Cile contro il presidente Allende, ha fornito esempi vividi della continua storia d’amore dell’America con la violenza e la sovversione, come quando le agenzie specializzate statunitensi formavano le forze militari e di polizia latino-americane per rapire, torturare e uccidere gli oppositori interni, incluse le donne; intanto, alcuni agenti francesi nell’ombra presumibilmente inaugurarono in Argentina e in Cile la politica dello scarico dei corpi dei “comunisti” nell’Oceano da velivoli ad alta quota, per cancellare così tutte le tracce di quegli omicidi che in seguito sarebbero diventati sparizioni. Dalla Seconda Guerra Mondiale, passando per il conflitto indocinese fino all’11 settembre e agli assalti in Iraq, Afghanistan e Libia, c’è un’ininterrotta eredità di inganno, sovversione e di crudeltà omicida lasciata dalle potenze imperiali occidentali (sebbene non solo da loro) nel Terzo Mondo, nonostante la loro insistenza sull’insegnamento della democrazia e sull’esportazione della “libertà” al di fuori dei propri confini. Gli esempi attuali sono forniti dal ruolo molto sospetto degli stessi Paesi nel costruire ogni sorta di guerriglia di “attivismo democratico” contro il governo siriano e nel supportare non così velatamente i manifestanti violenti e persino i terroristi in Nazioni che non fanno parte della loro alleanza, come la Russia e l’Ucraina.

Quando si sentono alcuni dei relatori discutere delle destabilizzanti azioni sovversive sponsorizzate sia dalle grandi potenze sia dalle multinazionali in passato, non si può che evocare l’atteggiamento ambiguo degli Stati Uniti e dei suoi alleati europei nei confronti della prospettiva di attacchi terroristici negli imminenti (attualmente in corso, ndr) Giochi Olimpici di Sochi.

Adrian Levy ha esemplificato la tendenza occidentale a spostare il nostro sguardo collettivo su determinati eventi carichi di un significato geopolitico, come gli attacchi terroristici di Mumbai del 26/11/2008 rispetto all’effettivamente intrigante biografia personale dell’agente nell’ombra – e spacciatore di droga – David Coleman Headley. L’esplorazione psicologica del carattere di un individuo, nei romanzi, ha il vantaggio di ridurre la visibilità di alcuni burattinai dietro le quinte di questi agenti in stile Svengali. Lo stesso stratagemma è stato utilizzato in passato per confinare il dramma dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy ai problemi personali di Lee Harvey Oswald e così ignorare le schiaccianti prove di un complotto. Anzi, il successo del marchio dato alla “teoria della cospirazione” da parte delle autorità superiori è tale che la maggior parte degli oratori al festival sentiva di dover chiedere scusa ogni volta che era costretta a parlare proprio di cospirazioni. L’11 settembre, che trova inevitabilmente un posto in ogni discorso da quella fatidica data, è altrettanto offuscato dai racconti sensazionali del sistema di credenze di Osama bin Laden e dal presunto stato d’animo di un Mohammed Atta e dei suoi uomini, mentre vengono ignorati i segni inconfutabili di collusioni e macchinazioni ad alto livello.

Michael Axworthy è stato comprensibilmente evasivo quando ha descritto il ruolo della CIA nel colpo di stato del 1953, messo in atto per rovesciare il primo ministro iraniano Mossadegh, lasciando un certo margine di dubbio sul fatto che gli agenti statunitensi-britannici fossero totalmente responsabili della sua rovina. Samantha Weinberg ha evidenziato le variegate personalità di alcuni attori e mercenari locali coinvolti in alcuni colpi di Stato specifici dell’Africa, dalle Isole Comore al Congo.

È un dato di fatto che il festival di Jaipur rimanga un bastione dell’influenza occidentale, e più specificamente anglosassone, per via del linguaggio stesso che esso promuove, mentre l’Hindi rimane in disparte. Non è sorprendente che alcuni dei “signori orientali occidentalizzati” che hanno ricoperto delle posizioni di rilievo nell’élite al potere in India o la rappresentano all’estero, offrano una strenua difesa della civiltà occidentale nella tradizione di Macaulay e dell’Europa in particolare.

Lord Meghnad Desai ha rilevato che le conquiste culturali dell’India e il pensiero socio-politico non possono mai misurarsi con, né rimpiazzare, la trionfante ispirazione occidentale, mentre Dipankar Gupta ha accolto il modello francese aggressivamente agnostico di secolarismo e il sistema di benessere sociale scandinavo come ideali ai quali aspirare universalmente, in contrasto con quello che abbiamo visto in precedenza, cioè le politiche dell’Asia meridionale legate alla religione. Anche se è difficile condividere o addirittura simpatizzare per la convinzione che l’India di per sé possa mai diventare una versione più grande della Danimarca, climaticamente o demograficamente, è possibile ammettere che molti aspetti della socialdemocrazia meritano di essere adottati, ma lo status attuale della Francia (dove non solo certe idee e teorie sono vietate dalla legge, ma anche alcuni gesti, modi di vestire e ornamenti sono proibiti, nonostante la pornografia e la blasfemia godano di tutela costituzionale) non è certo un’immagine convincente di successo. L’unico oratore francese al Festival, l’ex Ministro degli Esteri Hubert Vedrine ha dato l’impressione di essere abbastanza slegato non solo dal mondo anglosassone dominante, ma anche dalle realtà socio-politiche non occidentali, che in realtà sono piuttosto simili all’élite francese, la quale funziona ancora su un codice sorgente “Giacobino”, auto-referenziale, strettamente “laico” e razionalista, ed è meno esposta alla percezione mutevole delle vicende umane che, negli Stati Uniti e nelle più grandi Nazioni del Commonwealth è sempre più influenzata dalle rinascenti civiltà autoctone.

Ad esempio, John Ralston Saul ha dialogato con Vedrine, ha parlato della rilevanza delle forme di gestione sociale dei nativi Americani e delle tradizioni giuridiche per una nuova e più inclusiva alternativa al paradigma neo-liberale.

I sinologi e coloro che hanno familiarità con la Cina erano presumibilmente personalità di spicco a questo festival letterario. Rana Mitter ha dato sia un utile promemoria del ruolo fondamentale, ma spesso dimenticato, della Cina durante la Seconda Guerra Mondiale, in veste di alleato delle potenze liberali occidentali contro l’Asse fascista, sia un convincente resoconto dell’ascesa apparentemente prodigiosa della Cina e del suo futuro potenziale, che egli sente possa pienamente realizzarsi solo nel caso in cui il Partito Comunista rinunci al proprio monopolio sul potere. Anche se questo passaggio quasi inevitabilmente finirà per essere effettuato, ci si può chiedere se un cambiamento verso la democrazia partitica ispirata ai modelli occidentali possa permettere alla Cina di perseguire il suo processo di sviluppo economico accelerato o addirittura di sopravvivere come Nazione unita; si può certamente capire perché la maggior parte dei cinesi, contrariamente a quanto altre Nazioni vorrebbero vedere, non desideri scambiare la stabilità e la prosperità crescente con le promesse incerte di un sistema multi-partitico prevedibilmente corrotto, inefficiente e controverso.

I casi che fanno riflettere di numerosi Stati che si stanno “sviluppando”, come l’Ucraina, il Messico, la Colombia, il Sudafrica o anche, più vicine a casa, la Thailandia e le Filippine, devono agire come spaventapasseri. Anche l’India è lungi dall’essere vista come un successo stellare nelle vedute cinesi dominanti e quindi l’“Impero di Centro” sta ancora cercando di tracciare un percorso alternativo. Nessuno può prevedere con certezza come il Paese diventerà nel prossimo decennio o nei prossimi due, ma il romanziere cinese Xuo Luguo si è mostrato cautamente fiducioso in vista dei passi attuali fatti dalla leadership cinese verso la sostenibilità ambientale, il benessere sociale e la crescente apertura nella governance. Uno dei paradossi della visione liberal-democratica è che essa assume il ruolo di leader di un “cittadino d’élite”, che Dipankar Gupta vedeva come il solo in grado di svolgere la sua tanto celebrata “rivoluzione dall’alto”. Infatti molti degli autori al Festival rappresentavano una sorta di esempi viventi di quell’antica figura conosciuta come il British Victorian gentleman scholar, osservato non per i suoi brillanti interessi politici, ma piuttosto per la vastità della sua erudizione, per la precisione dei suoi metodi e per l’autoironico ma lucido stile della sua arte oratoria. Tali personalità presenti erano Richard Holmes, le cui abilità investigative nelle biografie dei suoi soggetti evocano le gesta dell’omonimo detective dilettante, A. N. Wilson e David Cannadine, tutti esperti della suddetta epoca vittoriana, che rappresentavano con l’equilibrio imperturbabile e l’eloquenza per cui la loro Nazione era stata a lungo famosa.

Spaziando da “Old Mariner” di Coleridge e dal contenuto ambientale delle sue visioni allegoriche al modo in cui nel XIX secolo gli Inglesi e gli Scozzesi conquistarono gli oceani più remoti, esplorarono i poli e l’alta atmosfera, governarono, con poche persone e mezzi, l’India e un impero che abbracciava il mondo, questi storici hanno dimostrato quanto fosse facile per i contemporanei di tali impressionanti risultati credere che Dio avesse scelto la Bretagna per governare le onde e guidare l’umanità, anche se si sostiene, piuttosto impropriamente, che essi abbiano costruito il proprio impero senza l’intenzione di fare tutto ciò. Eppure, quella presunta mancanza di secondi fini – in linea con la tesi americana secondo la quale il Paese è una “potenza imperiale riluttante” – non ha impedito loro di immatricolare milioni di soldati indiani e di utilizzarli, spesso come carne da cannone, nello svolgimento delle proprie guerre e spedizioni coloniali in quattro continenti. Tuttavia, la rinascita di una nostalgia stranamente anacronistica per un passato medievale che il Romanticismo aveva suscitato, ha portato gli Inglesi a conservare e promuovere molti aspetti dello sfarzo feudale che essi ritenevano necessari per giustificare e manifestare la propria supremazia.

L’India ha giocato un ruolo importante nel trasformare gran parte dell’élite di governo rurale del Regno Unito, lontano dai modernizzanti e missionari progetti delle nuove classi ricche capitaliste e tecnocratiche. Piuttosto, dopo l’insurrezione indiana del 1857, Westminster, all’unisono con le visioni personali della regina Vittoria, si accontentava di mantenere molti dei propri possedimenti d’oltremare nell’ambito di un semi-feudale ordine gerarchico “ornamentale”, che ha richiesto massicci e frequenti spettacoli di fasto e cerimoniali, magari come copertura per le operazioni finanziarie della City of London, in linea con uno dei più antichi attributi del potere nelle società pre-industriali.

Si può naturalmente dedurre che l’abbandono della procedura e dello splendore da parte degli Stati e delle classi dirigenti tende ad essere seguito da un aumento strisciante dei poteri; la portata dello spionaggio e della sorveglianza, come si può vedere negli Stati Uniti e in molte altre presunte democrazie che si stanno trasformando in cryptocrazie ad alta tecnologia, permette sguardi indiscreti, pervasivi e ossessivi nella vita di tutte le persone, in un modo simile a quelli delle vituperate, non brillanti e meschine «democrazie popolari». Si potrebbe concludere, dai precedenti resoconti, che la tendenza culturale predominante (lo zeitgeist) del Festival ha riflesso la mentalità globale prevalente che consacra la civiltà occidentale e le sue attuali attività sociali, politiche, culturali, scientifiche e tecnologiche come la norma universale. Tuttavia, erano visibili correnti contrarie in alcuni dei gruppi in cui, a parte le considerazioni stimolanti circa il messaggio spirituale, radicale e anti-modernista di Dostojevskij da parte di Homi Bhabha e altri, l’esperienza indigena e le eredità asiatiche sono state presentate e lodate da relatori sudamericani, canadesi, europei e asiatici.

Il patrimonio dell’India nella sua rilevanza universale è stato esplorato da alcuni in materie tanto diverse come l’enorme, ma minacciata, letteratura sanscrita classica (una stima parla di trenta milioni di manoscritti giunti fino a noi, secondo il professore di Harvard Alex Watson, molti non tradotti e nemmeno catalogati) che può essere letta e compresa da sempre meno persone e come la trasmissione all’Occidente delle invenzioni indiane quali gli scacchi e i giochi di carte.

Barnaby Rogerson, l’autore del “Libro dei Numeri”, ha anche osato citare studiosi che hanno concluso che la civiltà sumera, la prima in Mesopotamia, potrebbe essere stata fondata dai navigatori provenienti dalla valle dell’Indo-Sarasvati in India; si tratta di una tesi che era inaccettabile e anche ritenuta oltraggiosa nei circoli di esperti solo pochi anni fa, mentre la latinista Mary Beard ha sottolineato che la moneta d’oro potrebbe essere stata creata nell’Impero Romano esclusivamente per soddisfare le necessità dell’alto volume commerciale con l’India. La favolosa ricchezza di quest’ultima Nazione può dunque essere correlata alla straordinaria diversità della sua creatività, che ha coltivato i “molti mostri maligni” della sua mitologia riguardo ai quali i turisti stranieri erano spesso molto critici, come ricorda Partha Mitter, in contrasto con la tendenza in Europa a raggiungere una coerenza e una unità definita in termini di ciò che è ritenuto migliore, spesso con una conseguente uniformità sia nel pensiero sia negli standard estetici. Il riconoscimento crescente nei circoli accademici della validità storica di gran parte della letteratura epica antica si è riflesso in alcune delle discussioni che hanno anche illustrato il numero infinito di interpretazioni che possono essere date alle storie in essa racchiuse.

C’è un modo indiano di pensare, come è stato sostenuto da alcuni, oppure è solo una versione culturalmente specifica del “Weltanschauung”, di società pre-positivistiche tradizionali? In effetti ci sono tante visioni indiane del mondo quante sono le scuole di filosofia, i gruppi etnici e le sette religiose.
In un ambito completamente diverso, Ray Monk, all’interno di un notevole film biografico su Ludwig Wittgenstein ha mostrato come il brillante filosofo alla fine sia arrivato a rendersi conto che il suo tentativo di costruire una logica puramente oggettiva modellata su un modello matematico era stato vano e “ciò che non può essere detto a parole deve essere lasciato inespresso” in modo che, contrariamente ai suoi colleghi della Scuola di Vienna, egli ha finalmente abbracciato una forma di consapevolezza mistica simile ai Vedanta ed all’epistemologia buddista che ha sostituito tutto il suo lavoro precedente.

Wittgenstein era uno dei tanti a vedere che le filosofie razionaliste europee possono solo sperare di finire dove la saggezza orientale inizia, nelle sue molteplici forme indiane, cinesi e mediorientali. L’Occidente, e quindi il mondo intero, stanno soffrendo molte delle conseguenze delle proposizioni sterili o autodistruttive del positivismo, dell’esistenzialismo, del decostruzionismo e del relativismo e farebbero bene a prendere spunto da quanto lasciato da Wittgenstein, accolto come uno dei pionieri della filosofia moderna.

Sarebbe pericoloso mettere in relazione la chiamata delle visioni orientali metafisiche del mondo con una nuova considerazione per le forme tradizionali di governo, ma una grintosa difesa dell’ordine feudale in India è stata presentata dall’Ambasciatore Indrajit Singh Rathor, Rao di Masuda e dall’ammiraglio Madhavendra Singh di Chomu, un ex capo della Marina indiana che ha presentato il suo libro storico “Attraverso una finestra feudale…”. La tesi di entrambi i relatori era che generalmente, date le circostanze nel passato, le testimonianze scritte della maggior parte degli innumerevoli prìncipi indù e anche musulmani che avevano governato i loro rispettivi Stati, grandi e piccoli, in tutta l’India fino all’indipendenza della Nazione, erano invidiabili rispetto alla storia con luci e ombre delle sei decadi del vecchio sistema repubblicano.

Si può solo osservare, senza entrare in questo dibattito sensibile, che, come ha scritto il defunto Raimundo Panikkar, i dirigenti che hanno preso il posto del Raj britannico nel 1947 e in gran parte mantenuto le sue istituzioni, hanno occupato tutti gli edifici coloniali lasciati liberi dai colonizzatori stranieri mentre rapidamente smantellavano gli Stati indigeni e lasciavano che gli antichi palazzi e i monumenti costruiti dai sovrani tradizionali crollassero o fossero trasformati in alberghi per turisti. Non ci può essere prova più eloquente delle scelte fatte dalle nuove élite indiane, che erano in gran parte convertite al modo “occidentale” di pensare e di fare le cose.

L’India è oggi al bivio, come diverse discussioni al Festival hanno evidenziato e, anche se non c’è una vera alternativa all’influenza occidentalizzante della scienza globalizzata e della tecnologia, l’apparente declino del globalismo stesso e la natura distopica dell’iper-capitalismo di oggi sta costringendo molti a riconsiderare il corso che era stato seguito dal Paese. Da un lato, gli uomini d’affari formati-come-occidentali, come Ravi Venkatesan, quando richiamano una liberalizzazione dell’economia sembrano equiparare la democrazia ad un libero mercato internazionale, senza ostacoli, mentre i politici come Yashwant Sinha riconoscono che un delicato equilibrio deve essere raggiunto tra le esigenze della maggioranza più povera e le legittime esigenze di business, ma ovviamente coloro che lottano per le elezioni devono cercare di accontentare il maggior numero possibile di persone con le parole, ma difficilmente possono ottenere lo stesso risultato attraverso le azioni.

Una distinzione deve essere fatta tra il sistema dharmarajya indiano di un tempo e la bellicosa organizzazione tribale che ancora esiste in gran parte dell’Occidente, come anche in Asia centrale e in Africa e che, in combinazione con le forme non assimilate di governo prese in prestito dall’Occidente, sta tenendo Paesi come l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan e il Pakistan in un sanguinoso tumulto. Molta attenzione è stata dedicata al calderone delle streghe Af-Pak, in cui molti fecero crollare un impero, in una zona che gli Americani stanno ormai perdendo la speranza di sottomettere. Sebbene la discussione su quella “Nazione superflua” fosse stata vista dai suoi partecipanti come una conversazione imperiale anglo-americana, essa ha tuttavia prodotto alcune conclusioni interessanti.

Uno degli oratori era Barnett Rubin, un’importante “mano diplomatica” americana in quella zona, accusato dal Presidente Hamid Karzai di aver cospirato con i Talebani contro di lui per conto di Washington, che ha sancito, come l’ambasciatore Blackwill e Mark Mazzetti, che il suo governo fosse a corto di opzioni diverse da un ritiro rapido o lento dal pantano, mentre Ben Anderson, che ha familiarità con la situazione sul campo, ha offerto una prospettiva fragile, poiché si aspetta che gran parte del Paese cada sotto il controllo dei Talebani e il resto venga inghiottito nelle guerre civili per gli anni a venire; secondo Anderson, inoltre, il regime corrotto di Kabul non ha alcuna legittimità e dipende per la sua sopravvivenza dagli introiti di valute estere. Tutti gli uomini della NATO non sono riusciti in dodici anni nella formazione di un esercito e di una polizia afghana competente e affidabile e quella mancata realizzazione fornisce un desolato epilogo dell’ultima avventura neo-coloniale dell’Occidente. Nel clima nazionale pre-elettorale, la questione della democrazia come forma di governo è rimasta all’ordine del giorno e l’ultima sessione è stata dedicata ad essa.

È quasi impossibile per chiunque in qualsiasi posizione di importante responsabilità esprimere dubbi sulla validità del sistema di oggi, ma le condizioni e le circostanze per la democrazia perché diventi “reale” restano una questione di dibattito. I partiti di “centro-sinistra” trovano facile mettere in discussione l’impegno dei politici di destra verso quella formula, tuttavia il fatto è che il pensiero di sinistra è responsabile dell’avvento di almeno tante dittature o forme di totalitarismo come lo è il suo omologo di destra.

Murli Manohar Joshi, parlando per la BJP ha sottolineato che l’applicabilità della democrazia dipende in modo critico dalle persone che si assumono le proprie responsabilità e che rispettano le istituzioni statali e non fanno semplicemente valere i propri diritti. Shazia Ilmi che ha rappresentato il Partito Aam Admi ha affermato che quando le leggi sono ingiuste o non vengono attuate, l’agitazione della gente, da sola, può forzare modifiche se le riforme legislative costituzionalmente previste non sono possibili o adeguate. Ha anche detto che, perché la democrazia sia reale, coloro che appartengono a dinastie “feudali” non dovrebbero essere eleggibili in posizioni di potere e tale nozione discriminatoria fa sì che molti si chiedano se l’AAP, quando parla di una “democrazia partecipativa” piuttosto che di un sistema rappresentativo, non aspiri in realtà ad una “democrazia del popolo”, simile a quella delle ex repubbliche sovietiche.

Mentre Anis Ahmed ha ripercorso i travagli e i conflitti nel suo Paese nativo – il Bangladesh – e ha celebrato la libertà di espressione garantita dal sistema indiano, Lily Wangchuk ha spostato l’attenzione sulla democrazia propria del Bhutan come dono da parte di un monarca finora assoluto, al quale non era neppure stato chiesto dalla popolazione e che può aver portato approvazioni contrastanti. La questione che rimane da chiarire è questa: in una piccola e riparata Nazione come il Bhutan il sistema elettorale multi-partitico appare come un giocattolo superfluo oppure sembra essere un’apparecchiatura ingestibile e destabilizzante in Paesi che non sono culturalmente adattati ad esso, come la maggior parte dei Paesi dell’Africa, dell’Asia occidentale e anche del sud-est asiatico, dove la Thailandia sta soffrendo gli effetti nefasti di un modello Westminster troppo facilmente corruttibile.

La vacca sacra (o meglio il vitello d’oro) della libertà personale è troppo spesso offerta per il culto, senza lasciare spazio a domande legittime, quali: libertà di fare cosa? Libertà per chi e da che cosa?
L’umanità si trova sempre vicino al baratro del caos politico ed economico, e solo la saggezza senza tempo che l’India ha conservato ed espresso, probabilmente meglio di qualsiasi altra civiltà, può di tempo in tempo riportarla alla ragione. Né la letteratura, né la scienza possono raggiungere tale obiettivo se non sono immersi in essa.

(Traduzione dall’inglese di Stefano Contini)


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