scrivo dalla casa di accoglienza immigrati, con pc dai tasti quasi bianchi e un bicchiere di tè preso alla maniera marocchina, e cioè profumato dalle foglie di menta e un cucchiaio di zucchero di canna.
per arrivare si percorre una strada in mezzo ai campi, ed è quasi impossibile pensare che questa distesa di terra ghiacciata, gli orti e le piante da frutto, in breve questa campagna accolga il Corno d’Africa, la Polinesia e la Nuova Guinea.
Giovanni Acci, Venezia 1972
ho parcheggiato davanti a una fila di bidoni sfondati. la casa è circondata da un marciapiede sul quale è cresciuta una sfoglia di ghiaccio. sul lato nord c’è una porta di lamiera che ripara una stanza senza intonaco, nella quale pare abbia deciso di guastarsi la caldaia del caseggiato. un vecchio le sta appoggiato accanto e per ogni folata si tiene le braccia e parla a voce più forte. dalla porta di lamiera entra ed esce un uomo molto giovane e velato da una sciarpa.
nelle strutture per svantaggiati, profughi, madri sole l’educatore ha sempre qualcosa di solidale coi suoi assistiti nei modi e nell’aspetto. anche questa volta mi viene incontro un uomo calzato di scarponi da montagna e di una magrezza atletica. noto che al collo ha una collana barbara e che mi abbraccia con più trasporto o imabarazzo del necessario. “non ti aspettavamo così presto”, dice, e fa spallucce nella direzione della caldaia rotta, dopodiché mi precede e parla come se dovessi fargli l’intervista su due piedi, al freddo dell’ingresso.
dentro c’è odore di stazione e neanche l’ombra di un profugo. ma il mio educatore non si cura di farmi conoscere gli ospiti e mi porta in una specie di stanza da letto. alle pareti ci sono ornamenti di legno e un armadio che trabocca scatole e fogli enormi, arrotolati come poster, che non so cosa raffigurino.
(sto ascoltando Dreaming, composizione per flauto e pianoforte di Luigi Bandelloni)