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Giuliano d’Elena: il filosofo del pennello (parte 1/3)

Creato il 20 luglio 2015 da Cultura Salentina

Giuliano d’Elena: il filosofo del pennello (parte 1/3)

20 luglio 2015 di Redazione

di Stefano Previtero

Giuliano d’Elena: il filosofo del pennello (parte 1/3)

Giuliano D’Elena ritratto nel suo studio (metà anni ‘90)

Giuliano D’Elena, pseudonimo di Giuliano Chetta, (Taviano, 1947), si laurea e conclude i suoi studi pedagogico-filosofici presso l’Università di Lecce con la tesi sul “Singolarismo nell’arte”, compendio di estetica ed esistenzialismo. Esordisce artisticamente nel 1966 con una scenografia sul “Giulio Cesare” al teatro Tito Schipa di Gallipoli, e si afferma come uno dei maggiori rappresentanti della “neo-figurazione” esistenzialista. Le sue opere sono in collezioni di Gallerie d’Arte e Pinacoteche pubbliche e private, molti sono stati i critici che lo hanno valorizzato. Ha realizzato opere d’arte sacra di grandi dimensioni e molti suoi quadri sono stati scelti per illustrare le copertine di vari libri; egli è stato ideatore e Direttore Artistico della “Biennale d’Arte” città di Gallipoli ed è fondatore della corrente artistico-culturale denominata “Normalismo”.

In pittura Giuliano D’Elena evolve dal naturalismo (il famoso “Quadro dei nonni”) all’iperrealismo e alla pop art americana, fino a giungere all’analisi della videocrazia contemporanea. Come studioso si muove con estrema sicurezza dalla pedagogia alla filosofia fino ai più recenti contributi teologici: ne sono testimoni la compilazione di due complessi Vocabolari per la cui realizzazione sono serviti dieci anni di studi ciascuno.

Il ricavato del “Vocabolario Salentino-Tavianese” (1987) è stato devoluto interamente alla costruzione della sede dei Donatori del Sangue di Taviano. Il ricavato de “Il Vocabolario di Dio” (2000) è stato invece destinato all’istituzione del “Fondo di solidarietà: Vocabolario di Dio” tutt’oggi operante. Oggi questi libri si trovano depositati presso l’Antica Biblioteca Ambrosiana di Milano, la Biblioteca Pontificia di Roma e le Biblioteche Nazionali di Roma e Napoli, con grande consenso di letterati e alti esponenti della Chiesa cattolica (come Mons. Michele Pinto, Mons. Franco Buzzi, il Cardinale Gianfranco Ravasi).

Non meno importanti risultano essere i volumi “Riflessioni sull’essere” (1993), “Cristocentrismo (la teologia della Madre)” (2006) anch’esso acquisito dalla Biblioteca Ambrosiana, “Parole di Carne” (2007) e “Dichiarazioni d’amore a Dio” (2010), accolto nello stesso anno dal Pontificium Consilium de Cultura del Vaticano (Diretto dal Card. Gianfranco Ravasi).

A partire dal 2013 Giuliano D’Elena tiene una serie di incontri pubblici in seno al “Centro di Studi Cristologici” da lui fondato, aperti al dialogo sui grandi temi esistenziali di oggi.

“Il gioco-giogo del reale”: il Normalismo

Il pensiero estetico di Giuliano D’Elena è delineato nel “Manifesto del Normalismo” (contenuto nel volume “Riflessioni sull’essere” – 1993), e nei saggi “Il gioco-giogo del reale (la mia estetica)” (1996) e “Il Normalismo Estetico” (2008).

Secondo l’Autore la società delle immagini (e dell’esteriorità) in cui viviamo produce molta finzione teatralità ed artificio comportamentale. In questa recitazione totale, più o meno consapevole, da Teatro dei Pupi, si cura molto l’apparenza e poco il contenuto di un qualche vissuto vero e autentico. L’incredibile è che tutto questo passa per normale e che chiedere di essere trasparenti è come chiedere l’anormalità.

Tutti scelgono “il gioco delle parti”, rinunciando a se stessi ed alla propria identità, perché il fine di tutto è giungere al possesso di qualcosa, con qualsiasi mezzo e quindi strumentalizzando chicchessia. È certo, dunque, che perduta la spontaneità, tutto diventa costruito, artefatto, finto, recitato e ambiguamente mediato dalla scena teatrale.

Così l’Autore, per produrre questa rappresentazione scenica nei suoi quadri, cerca una composizione adatta a costruire una vera e propria finzione ambientale, dentro la quale far muovere e recitare i suoi personaggi. In genere vengono utilizzate come scene veri e propri muri con parapetti (che separano un al di qua con un al di là), cortili mediterranei, oppure finestre o angoli di strada.

Il procedimento pittorico utilizzato, che continua l’immagine o parti di essa sulla cornice o sul supporto bianco incastonato alla tela, permette di far “uscire” dalla scena una delle figure della composizione e di porla in primo piano con l’atteggiamento di chi guarda (o giudica) cosa avviene all’interno del quadro. Questo artificio permette di far “pensare” sul raffigurato, ponendo il fruitore (ovvero l’osservatore) nelle condizioni di doversi “distanziare” dal soggetto espresso: non più contemplante estraniato ma giudicante obbligato e coinvolto.

Siamo così di fronte all’arte che analizza se stessa (arte analitica), ad una scrittura nella scrittura (presenza discreta, avveduta, dissimulata, ma esistente) che produce una narrazione “truccata”, scaltramente proposta come normale, dove nulla è lasciato al caso, dove ogni particolare realistico diventa essenzialmente simbolo e simulacro di vissuto e dove ogni centimetro di “apparizione” sulla scena è dosato quanto il posto in cui compare nel quadro.

Il Normalismo nasce dunque dallo studio di ciò che significa “normale” nella immagine di oggi. Si parte infatti dall’idea che non ci siano più immagini formulate interiormente nell’intimismo tutto privato di una sola persona, perché la mente di questa persona riesce a partorire solo immagini di massa giungendo così alla scissione storica tra il soggetto e l’oggetto da lui stesso pensato. Il pericolo di scambiare il reale con il virtuale (a causa del continua bombardamento di immagini cui è sottoposto l’homo videns di oggi) è quotidianamente incombente.

L’attenzione si sposta così dall’oggetto d’arte (l’opera in sé) allo studio del comportamento del soggetto di fronte all’opera stessa, che può essere considerata oggetto derivato, ottenuto o trovato, oggetto che diventa la registrazione dei segni e interventi di questo studio. In sostanza l’Autore partorisce un’immagine, ne constata l’impossibilità dell’originalità e, per poterla riconoscere come sua, interviene nuovamente su di essa materializzando segnicamente lo studio di questo intervento (cioè registra se stesso mentre interviene su se stesso).

In questo senso il Normalismo estetico (frutto di ottica massmediale) si presenta come la più spettacolare provocazione visiva rivolta alla psicologia del fruitore-spettatore, affinché reagisca e ponga in crisi il suo stesso modo di pensare e di osservare il mondo esterno, artatamente proposto come “normale”.

>>continua


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