Giuliano Montaldo e Giovanni Berardi
Ho un ricordo personale in merito ad un film di Giuliano Montaldo. Era il 1971, il film era Sacco e Vanzetti. Ebbene, è stato il primo film di grande impegno civile che ho visto, all’età di tredici anni, al cinema. E tutto questo appassionandomi moltissimo perché, nonostante l’importanza estrema della tematica ed il rigore dell’impegno civile, lo spettacolo cinematografico era ben presente. Glielo comunichiamo, Montaldo sorride e conferma. Da allora in poi, ricordiamo al regista, il tam tam battente, il passaparola dei giovanissimi sul suo film, giovanissimi che non rinunciavano alle mitiche gesta di Trinità e Bambino, Ringo, Sartana ed Alleluia, è diventato motrice trainante.
Da qui, di corsa, tutti a vedere con lo stesso entusiasmo l’immediato precedente di Bernardo Bertolucci, Il conformista, uscito solo pochi mesi prima di Sacco e Vanzetti e poi, ancora più indietro, nei mitici cinema d’essai, che cominciavano a nascere e proliferare in quegli anni, pellicole come Uomini contro di Francesco Rosi, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica, Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, scoprendo sempre, in questi film, il loro senso dello spettacolo, continuando anche ad amare, in ogni caso, i film di Lando Buzzanca, la commedia erotica all’italiana nelle sue varie fattispecie e condizioni, il poliziottesco, il giallo horror ed i film di Dario Argento. E così che i ragazzini degli anni settanta hanno continuato ad appassionarsi al cinema. Intanto un particolare: il suo film del 1969 Gott mit uns (Dio è con noi), interpretato da Franco Nero e Bud Spencer, beniamini decisamente di pellicole ben più semplici, è da leggersi come una volontà precisa di fare incontrare, finalmente, i pubblici più diversi e svariati.
A casa di Giuliano Montaldo, dove ci siamo recati per la chiacchierata, un assolato quinto piano del quartiere Prati a Roma, si respira intatta l’aria della grande cultura, tutto è testimonianza di questo, i quadri del novecento in mostra sulle pareti, i ricordi dai set, e poi libri, documenti, testimonianze, ricordi. E’ una gioia perdersi in questa quantità, in un momento in cui la produzione culturale è considerata sempre più superflua. Dice Montaldo: “Ogni giorno la cronaca ci offre motivi di cui indignarsi, francamente non se ne può più di sentire commentare solo le barzellette, sentire discutere di marchette, festini, massaggi erogeni, di minorenni bionde o brune. Personalmente mi sono letteralmente stufato di essere costantemente messo al corrente solo sulle imprese erotiche del nostro presidente del consiglio. Questa è un Italia che non vogliamo più. La difesa della cultura, di cui tutti abbiamo bisogno, io per primo, è necessaria per fare sì che le persone restino davvero esseri pensanti”. Montaldo auspica che lo spettacolo non sia più rivolto solo a rimbecillire o a compiacersi, ma torni a creare una coscienza civile.
E’ pacato, attento, riflessivo, sereno, quando Giuliano Montaldo dice questo, uguale quando, subito dopo, si sofferma a raccontare il significato, lo spirito, la trama del nuovo film, L’industriale, che si appresta a girare a gennaio. “E’ la storia di un industriale oggi, nella società del 2010” sintetizza Montaldo “con tutte le problematiche che ha nei confronti del rapporto con la sua fabbrica che sta per chiudere. E’ una fabbrica di famiglia, ereditata dal padre”. Dopo aver dedicato gli anni settanta ad un cinema di rivolta verso il potere, ancorché di analisi spietata dei guasti e delle rovine da esso prodotti, con i film Gott mit uns (Dio è con noi), Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno (1973), L’Agnese va a morire (1978), Montaldo torna a fare un film fortemente sociale, forse riallacciandosi già ad un discorso precedentemente affrontato con il suo secondo lavoro Una bella grinta (1964), un film in cui il capitalismo nascente in Italia nei primi anni sessanta, i cosiddetti anni del boom, veniva denunciato per quello che effettivamente procurava, la schiavitù dal denaro e l’inaridimento dei rapporti tra gli uomini. Dice Montaldo: “se c’è un legame tra Una bella grinta e L’industriale è tutta nel ricordo del percorso tra gli anni del boom, gli anni sessanta, e quelli dello sboom, gli anni attuali”. Una bella grinta è un film di cui Montaldo mantiene un ricordo piacevole: “ha vinto il premio speciale della giuria al festival di Berlino e ricordo critiche e giudizi favorevoli sia ai principi che all’estetica del film da parte dello scrittore Alberto Moravia”. L’industriale segnerà quindi il ritorno al cinema di Giuliano Montaldo, a distanza di quasi tre anni dal suo ultimo film I demoni di San Pietroburgo. Ma prima di quest’ultima pellicola, in sala nel 2008, il regista era rimasto fermo per ben vent’anni. Spiega Montaldo: “la ragione di quella mia lunga assenza dai set cinematografici è maturata dopo Tempo di uccidere, girato nel 1988. Ebbene si, non ero riuscito a realizzare quel film come avrei dovuto”. Di più il regista non ha voluto chiarire, ma la sua è stata, comunque, una lontananza parziale, perché in realtà Montaldo è diventato in quel momento uno dei più attenti e sensibili registi di lirica.
Il debutto di Montaldo nel cinema avviene come attore. E’ Carlo Lizzani che lo sceglie per una parte nel suo Achtung! Banditi (1951), confermandolo poi anche in Cronache di poveri amanti (1953). Il giovane Montaldo assimilerà moltissimo dal cinema di Lizzani; in fondo, con la sua prima prova da regista, Montaldo si è voluto un po’ confrontare con quella sua prima prova di attore, valutando, da par suo, ancora i temi cari della Resistenza, mutuando da un insolito romanzo di Gilli Romanelli, “che mi aveva sconvolto ed appassionato” dice Montaldo, il soggetto per il suo film d’esordio, Tiro al piccione: un episodio della Resistenza vista dall’altra parte, quella dei repubblichini di Salò, la storia di un giovane che in quegli anni aveva fatto la scelta sbagliata. Montaldo ricorda che quella sua prima prova fu molto osteggiata e rifiutata dall’intero mondo politico, da sinistra e da destra e la sua ragione d’autore ne fu molto colpita. Dice Montaldo: “in quel periodo avevo maturato l’idea che bisognava rivisitare anche le altre parti della guerra. Forse ho corso troppo, per la situazione politico culturale, perché il film venne tacciato di ambiguità. Questo mi ha bruciato tanto perché non era assolutamente vero, mi ha provocato anche una crisi personale perché pensavo proprio di non essere capace ad esprimermi, di non riuscire a farmi capire”.
Non c’è dubbio che, tra i film della sua carriera, quello che gli ha dato la totale visibilità in Italia e nel mondo è Sacco e Vanzetti. Spiega il regista: “si, lo riconosco. Ed oggi dico che quel film è stato un meccanismo perfetto, per mia fortuna, ma soprattutto grazie a quei due personaggi straordinari, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti”. Il regista ricorda come in America, i giovani universitari della facoltà di giurisprudenza di Boston, dopo la visione di Sacco e Vanzetti, che aiutò loro a cogliere, finalmente, l’ingiustiza di quel processo (“il film racconta il più atroce delitto commesso dalla giustizia umana” dice Montaldo), pretesero di studiare gli atti, montagne e montagne di carte e procedimenti, sette anni di impegno che si sono necessariamente tramandati tra generazioni, perché lo studio e le indagini furono massicce, ed il tempo del corso di studio insufficiente. I ragazzi che nel frattempo si laureavano restavano nel progetto come sorveglianti e vigilanti. Infine con i dati raccolti, i risultati accertati, sono andati dal governatore democratico Dukakis. Dice Montaldo: “gli studenti americani, con il loro minuzioso lavoro, han fatto in modo di velocizzare la pratica di riabilitazione dei due anarchici italiani”. Con in mano queste verità accertate e documentate, ed ormai indubbie, il governatore ha deciso di fare il “Sacco e Vanzetti day”, cioè la solenne riabilitazione, solo per lo stato del Massachussets, perché questo era nella facoltà del suo potere, ed ha invitato il regista Montaldo al governatorato di Boston. Riprende Montaldo: “devo dire che quel giorno, quando sono stato abbracciato dal nipote di Nicola Sacco, ebbene si, ho provato una forte e soave, quasi liberatoria, emozione”. Dukakis in quella occasione rese noto, proprio alla stampa mondiale, che solo per merito del film si era potuto creare questo movimento e questa solenne giornata di riabilitazione civile dei due anarchici italiani. Dice Montaldo: “un film che funziona, che è utile, secondo me è quello che fa discutere e provocare confronti. In fondo è questa la molla che mi muove quando decido di fare un nuovo film”. Paradossalmente, racconta Montaldo, Sacco e Vanzetti (memorabile la sua colonna sonora: la ballata Here’s to you Nicola and Bart, cantata da Joan Baez, è diventata ormai una bandiera per le proteste dei giovani di tutto il mondo) è stato il suo progetto, insieme a Giordano Bruno, più faticoso da realizzare, addirittura molto più del suo film d’esordio Tiro al piccione.
Dice Montaldo: “ si perché film come Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, come La lunga notte del 43 (1960) di Florestano Vancini, o come Il gobbo (1960) di Carlo Lizzani avevano avuto un grande successo di pubblico ed avevano spinto i produttori alla ricerca di esordienti. Così, molto facilmente era nato Tiro al piccione, un esordio che quasi non avevo cercato, ma che mi avevano piuttosto affidato”. Dopo il secondo film, Una bella grinta, ecco Montaldo trovarsi nella condizione in cui i film realizzati devono per forza portare a casa dei soldi. Gira così, con tutti i canoni grammaticali dell’industria del cinema (grandi attori, adeguato budget, storie che conducono principalmente allo spettacolo) Ad ogni costo (1967) e Gli intoccabili (1969), rispondendo pienamente, proprio nei risultati, alle esigenze commerciali dei produttori: i due film si riveleranno due grandi successi internazionali di pubblico. L’apporto, comunque, di attori straordinari, ricorda Montaldo, come Edward G. Robinson, Janet Leight, Klaus Kinsky per Ad ogni costo (un thrilling girato con molta ironia), John Cassavetes, Peter Falk, Gena Rowlands per Gli Intoccabili (in fondo uno dei primi film sull’argomento mafia, problema che allora non era così fortemente esploso), certamente hanno contribuito al risultato concreto.
Ora che Giuliano Montaldo è un regista affermato anche internazionalmente, nel mercato e nel suo contesto, ritorna ad essere il regista civilmente ispirato che è stato. Gira subito dopo, nello stesso 1969, Gott mit uns (Dio è con noi), e poi, appunto, Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno, L’Agnese va a morire, quindi Circuito chiuso, Il giocattolo, Il giorno prima, Gli occhiali d’oro, Tempo di uccidere, I demoni di San Pietroburgo. E, tra questi, nel 1980, un autentico Kolossal televisivo, forse sin’ora il più importante ed il più famoso realizzato dalla televisione italiana: Marco Polo.
Giovanni Berardi