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Giulio andreotti: il divo del film di sorrentino

Creato il 08 maggio 2013 da Postpopuli @PostPopuli

 

       

di Francesco Gori

La morte di Giulio Andreotti ha riportato sotto la luce dei riflettori una figura storica nel panorama politico italiano, ben documentata nel film del 2008 di Paolo Sorrentino: Il Divo.

Il talento del regista napoletano, del quale ricordiamo con piacere Le conseguenze dell’amore e This Must Be the Place, ritrae nel lungometraggio premiato a Cannes un Andreotti cinico, spietato, assetato di potere: un’immagine che in fondo la maggior parte di noi ha nella propria mente. Sì, perché al di là di applausi dovuti e ricordi di grandezza che si sono come sempre sprecati durante la cerimonia funebre, sull’onda del coinvolgimento emotivo, l”uomo di Stato per eccellenza, l’eterno Giulio che se n’è andato a 94 anni, è stato figura tra le più influenti quanto discutibili dall’alba del 1946, quando fu membro dell’Assemblea Costituente.

Andreotti interpretato da Toni Servillo, qui con la moglie Livia (Anna Bonaiuto) - www.movpins.com

Andreotti interpretato da Toni Servillo, qui con la moglie Livia (Anna Bonaiuto) – www.movpins.com

Rappresentante della Prima Repubblica, la sua lunga biografia ha sulla coscienza gran parte dei fatti oscuri del dopoguerra, come Il Divo ci conferma fin dalle prime istantanee di omicidi celebri: Mino Pecorelli, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giorgio Ambrosoli, Aldo Moro, Giovanni Falcone. Siamo agli inizi degli anni Novanta, settimo Governo Andreotti e Belzebù (un altro dei suoi tanti soprannomi, oltre a quello che dà il titolo al film) è attorniato dal suo clan, la corrente andreottiana della DC, che conta tra le proprie fila cardinali e deputati, tra i quali spicca quel Cirino Pomicino dai festini al sapore antesignano di bunga-bunga. Una fase che lo vede concorrere per il trono più ambito, quello di Presidente della Repubblica, che perderà a favore di Scalfaro dopo gli omicidi di Salvo Lima e il citato Falcone.

Troppe morti, troppi sospetti intorno a lui: “È un caso che…”, comincia così un’intervista di Eugenio Scalfari, che prosegue con un lungo elenco di fatti e misfatti cui l’onorevole si difende attaccando il direttore de La Repubblica. I fatti storici si chiudono con il processo per associazione mafiosa, cui verrà assolto per i fatti dopo il 1980, e ritenuto “partecipante” al reato per quelli antecedenti, caduti però in prescrizione.

Splendida la ricostruzione del personaggio, interpretato dal consueto mostro di bravura Toni Servillo che ne cattura a pieno l’interiorità, anziché la fisionomia: il volto inespressivo che è superficie esterna di un mondo sotterraneo segreto, una cristallizzazione interiore perfettamente adatta al circus del Parlamento italiano, una mimica inconfondibilmente reale nel surreale. Sì, perché Sorrentino usa il grottesco per descrivere il pragmatismo di Andreotti e gli eccessi della sua cricca.

L’emotività bloccata trova nel mal di testa il suo sfogo: è così che Giulio vive tra un Tedax e l’altro, farmaco analgesico cui è legato più che alla moglie, con la quale il rapporto è di una povertà imbarazzante. Epica in questo senso la scena in cui i due si avvicinano mano nella mano per un attimo davanti alla tv, mentre risuonano le note di un concerto di Renato Zero, nel pieno del caos da processo. L’apice del coinvolgimento affettivo tra marito e consorte.

Una maschera imperturbabile dai profondi conflitti interiori, nati dai compromessi in nome del potere perché “Gli alberi per crescere hanno bisogno di concime”. Le parole di Aldo Moro lo perseguitano – “Un regista freddo… senza un momento di pietà umana”, i media lo accusano, i magistrati lo incalzano, ma il divo, cui avevano previsto soli sei mesi di vita alla visita militare, resiste agli anni con le sue battute pronte, mentre gli altri soccombono. Tanti infatti “gli amanti della verità” sacrificati a suon di baci-Totò-Riina da Giulio Andreotti, in nome dell’autorità reazionaria di stampo cattolico, dell’ambizione figlia di una profonda solitudine.

Di lui il comune mortale ricorda la gobba, le grandi orecchie a sventola, il collo attaccato alle spalle, ed un’eterna presenza negli anni di politica italiana, così tanti (22 ministeri) da far gridare ai più: “Morirò prima io di Andreotti”. Persino nella seconda votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica 2013 c’è chi ha scritto il suo nome.

Chi era G.A.? Il ritratto di Sorrentino è ben delineato. Un protagonista indiscusso della scena politica, un’icona controversa, che divide chi ne sottolinea il cinismo spietato e chi, a morte avvenuta, ne glorifica la vita.

Una sola cosa è certa: nella storia, rimarrà di sicuro.

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