Giulio Cesare Vanini
10 giugno 2013
di Dino Licci
Nell’uso comune della parola dare del libertino a qualcuno significherebbe bollarlo come un uomo di facili costumi, una sorta di dongiovanni da strapazzo, quale quello rappresentato dal celebre personaggio di Molìere, ma se la parola “libertino” la usiamo per designare un’ alta figura morale quale quella di Giulio Cesare Vanini, allora il termine acquista tutt’altro significato perché entriamo nel campo della speculazione filosofica, nel primato della ragione sulla fede, laddove al dogma dell’ortodossia religiosa si contrappone l’incontrovertibile verità che scaturisce da un’attenta osservazione dei fenomeni naturali, da un’analisi profonda delle leggi che regolano il divenire fuori da ogni costrizione fideistica tipica di tutto il periodo medioevale. Libertinismo significa emancipazione con un preciso riferimento etimologico alla parola latina “libertus” nome dato allo schiavo romano che riscattava la sua libertà. Il libertinismo nacque soprattutto nella Francia del primo ‘600 come reazione alla restaurazione cattolica voluta dal concilio tridentino e, per quanto non si possa ancora identificare con l’illuminismo, pure in esso ne troviamo i primi germogli che, a ben guardare, dimoravano in un letargo secolare fin dal tempo dei presocratici e poi in un Aristotele biologo non ancora inficiato dalle manipolazioni medievali. Democrito, Leucippo, Epicuro ne saranno le colonne portanti e forniranno spunti di meditazione a tutte quelle scuole di pensiero che in tempi e luoghi diversi vorranno cercare la Verità, l’aletheia greca intesa come meraviglia, rivelazione, ricerca appassionata di un Dio che si manifesta nella Natura perché è in tutte le cose.
Il panteismo sarà infatti l’alta concezione che di Dio hanno i libertini, deisti che si sforzavano di cercarlo con l’uso della ragione, scevri da ogni condizionamento ambientale. Tali convincimenti li accostavano molto a Giordano Bruno con il quale condividevano anche l’idea della pluralità dei mondi e la concezione di un Universo infinito. Ma se la Storia si ricorda di commemorare Bruno bruciato vivo a Campo de’ fiori, o Campanella che dovette fingersi pazzo, o Galileo e la sua celebre abiura, pochi conoscono la figura del salentino Vanini che non fu meno pervicace degli altri eroi del libero pensiero nello sfidare il giudizio del potere temporale della Chiesa. Egli fu condannato dall’inquisizione di Tolosa e fece una fine orribile come vedremo più innanzi.
Nato a Taurisano nel 1585,egli era figlio illegittimo del ligure Giovanni Battista e della nobildonna spagnola Beatrice Lopez de Noguera. Giunto a maggiore età, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Napoli, ma la morte del padre lo colse privo di sostentamenti per cui dovette momentaneamente abbandonare gli studi ed entrare nei Carmelitani col nome di fra Gabriele. Le sue grandi capacità intellettuali e la sua spiccata “curiositas” lo videro impegnato in un primo tempo ancora a Napoli dove conseguì la laurea in diritto canonico e civile, poi, sistemata la sua condizione economica con la vendita delle sue proprietà e trasferito in un monastero di Padova, Vanini continuò i suoi studi iscrivendosi alla facoltà di teologia. Ma ciò che plasmò ancor più il suo pensiero libertino, furono lo studio appassionato di filosofi del calibro di Averroè e Cardano e la lettura degli scritti di Pietro Pomponazzi , spiriti così liberi dai condizionamenti religiosi, da poter essere considerati illuministi ante litteram. Sempre a Padova il Vanini si aggregò a quel gruppo facente capo al famoso frate Paolo Sarpi, che capeggiò la rivolta contro il papa Paolo V per difendere l’indipendenza da Roma della Repubblica Veneziana, che era stata colpita da Interdetto. Questo Sarpi era un frate di grande cultura che influenzò moltissimo il pensiero del nostro Vanini. Personaggio versatile e poliedrico, egli fu teologo, astronomo, matematico, fisico, anatomista e letterato ma la sua “Istoria del concilio tridentino”fu subito messa all’indice dalla Chiesa romana, che pare abbia attentato anche alla sua vita.
Ma il suo pensiero aveva già contaminato l’animo degli spiriti liberi come Vanini che, ormai noto alle autorità ecclesiastiche per il suo fervore antipapale, fu rinviato a Napoli dove sarebbe stato severamente punito dal generale dell’Ordine dei Carmelitani. Invece che a Napoli Giulio Cesare si recò dapprima a Bologna e poi assieme al confratello Genocchi e con la complicità degli ambasciatori inglesi, cominciò una lunga peregrinazione per tutta l’Europa fino ad approdare a Londra dove, alla presenza di Francesco Bacone, i due fuggitivi ripudiarono la fede cattolica per abbracciare quella anglicana. Mentre l’inquisizione si apprestava a giudicarli, i due frati, pentitosi, cercarono di essere riammessi nel cattolicesimo ma, dopo alterne vicende che videro Vanini prima rinchiuso nella torre di Londra, poi a Genova precettore dei figli di Giacomo Doria, il filosofo, infine fuggì in Francia ormai perseguitato dalla Chiesa, dalle autorità inglesi e perfino dall’inquisizione genovese che intanto aveva fatto arrestare l’amico Genocchi. Qui in Francia ricevette l’appoggio di molti aristocratici affascinati dalle opere che intanto andava scrivendo in perfetto latino. Ma se la crema della società francese apprezzava il suo pensiero, la Chiesa cattolica certamente non gradiva il suo eloquio rivoluzionario e progressista. Così i suoi testi furono dati al rogo ed egli venne accusato prima di ateismo, poi, quando, per difendersi, scrisse l’opera “Amphitheatrum aeternae Providentiae Divino-Magicum” (L’anfiteatro divino magico dell’eterna Provvidenza), fu accusato di panteismo. Sempre eretico restava ed anche quando i suoi scritti riguardavano la bellezza dei fenomeni naturali (“De Admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis” (I meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali), i suoi testi non piacquero alle autorità cattoliche, che li misero immediatamente all’indice e che poi vennero distrutti in un rogo purificatore. Sorte che toccò anche a lui quando il tribunale di Tolosa lo condannò come ateo e bestemmiatore e la sua morte fu qualcosa di atroce come si evince dalla descrizione che ne fa il filosofo Cesare Teofilato:
“Fu fatto salire sul carro, che doveva trasportarlo al luogo del supplizio. Allora egli, dotto nel classico idioma dei romani, esclamò:
-Andiamo,andiamo a morire allegramente da filosofo-
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Come decretato dalla sentenza, fu legato ad un palo. Si doveva strappargli la lingua ma, poiché Giulio Cesare si ostinava a non cavarla fuori, il boia ricercò con le tenaglie nella chiostra dei suoi denti e la lingua divelta cadde a terra, brandello sanguinante di carne………………Dopo lo strappo della lingua lo strangolamento, dopo lo strangolamento il fuoco. Così decretava la sentenza.”
Questo martire del libero pensiero è poco conosciuto forse perché i suoi testi furono in gran parte bruciati, forse perché le sue continue peregrinazioni ne fecero spesso perdere le tracce, eppure grande fu il contributo culturale che egli lascò all’umanità: fu precursore di Darwin asserendo che l’uomo proveniva dalle Scimmie e da altri progenitori comuni, fu grande naturalista in accordo con gli studi di Bruno, Telesio, Campanella, negò l’immortalità dell’anima secondo l’insegnamento del Pomponazzi e si erudì secondo il pensiero del Machiavelli, che predicava la laicità dello Stato. Definì miracoli suggestioni della mente umana e rifiutò la maggior parte dei dogmi dell’ortodossia cattolica.
Molto apprezzato dai filosofi d’oltralpe quali Gassendi e Bayle, fu un vero precursore del sapere ed illuminò, col suo pensiero, la strada degli uomini liberi che cercavano la verità senza essere soggiogati dalla paura dell’inquisizione che con Paolo V fu mascherata col nome di “Santo Uffizio”. Tale istituzione permane ancor oggi sotto il nome di “Congregazione per la dottrina della fede” i cui compiti sono specificati nel “Pastor bonus” di Giovanni Paolo II e della quale fu prefetto anche il cardinale Ratzinger prima di diventare papa.
Io chiuderei questo mio breve scritto, elogiando ancor più la figura di questo martire della laicità poco noto perfino nella sua terra natale, ma degno di sedere tra i grandi del pensiero filosofico mondiale.