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Giulio Cesare Vanini

Creato il 09 febbraio 2015 da Cultura Salentina

Giulio Cesare Vanini

9 febbraio 2015 di Dino Licci

 Un filosofo dimenticato

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“6655 – Roma – Ettore Ferrari, Giulio Cesare Vanini (1889) – Foto Giovanni Dall’Orto, 6-Apr-2008″ di G.dallorto – Opera propria. Con licenza Attribution tramite Wikimedia Commons

Giulio Cesare Vanini, di cui sto per scrivere qualche rigo, può essere considerato, alla stregua  di Giordano Bruno, Tommaso Campanella, lo stesso Galileo, un vero  martire della Scienza, un esponente di spicco di quel movimento filosofico chiamato Libertinismo, che rivalutava lo scetticismo greco ed il pensiero di Epicuro. Il Libertinismo si affermò in Italia nel periodo rinascimentale grazie a  figure di spicco quali  Girolamo Cardano, Paracelso o Niccolò Machiavelli, ma  già nel medioevo c’era chi basava la sua morale e la sua etica  sulle “leggi della Natura” e  credeva in un panteismo che predicava la libertà dei costumi ed una  relativa  licenziosità sessuale. Il libertinismo filosofico insomma, rifiutando ogni tipo di dogmatismo, predicava  invece la libertà di espressione ed il ricorso alla ragione e la Scienza, in palese contrasto con gli insegnamenti della Chiesa del tempo. Vedremo come   pagherà   questa sua visione del mondo il nostro Vanini che, col suo sacrificio, avrebbe  però contribuito  a spianare la strada  verso quell’illuminismo che avrebbe finalmente liberato l’umanità dall’oscurantismo medievale.

Giulio Cesare Vanini nacque a Taurisano nel 1585 ed era figlio illegittimo di un funzionario ligure, certo Giovanni Battista e della nobildonna spagnola Beatrice Lopez de Noguera. Studiò giurisprudenza all’Università di Napoli, ma fu costretto ad abbandonare gli studi per mancanza di mezzi e, dopo aver venduto le sue proprietà  per sanare i  debiti, entrò nell’ordine dei Carmelitani con il nome di Fra Gabriele.

In seguito conseguì la laurea in Diritto Civile e Canonico e poté  avvalersi del titolo di dottore in utroque iure. Trasferitosi a Padova per ordini superiori, si iscrisse alla facoltà di Teologia e approfondì i suoi studi spaziando dagli scritti di Averroè a quelli di Pietro Pomponazzi, il filosofo aristotelico che negava l’immortalità dell’anima. Si potrà da questo capire quanto tutto ciò lo ponesse in contrasto con la Chiesa che peraltro, proprio in quel periodo, era contrastata dalla Serenissima Repubblica di Venezia.

Nel conflitto tra Paolo V e la Serenissima, Vanini si schierò a favore di Venezia entrando addirittura a far parte del gruppo di Paolo Sarpi, monaco che voleva far aderire Padova alla Riforma protestante. Oltre che monaco, Sarpi era  astronomo, matematico, fisico, anatomista, letterato e polemista e  fu tanto versato in ogni campo del sapere, da esser definito dai suoi contemporanei   “Oracolo del secolo”. Si può immaginare quanto un personaggio del genere abbia influenzato la personalità del nostro Vanini che presto fu costretto a riparare in Inghilterra attraverso varie peregrinazioni, che lo videro vagare in Francia, Germania, Olanda e Svizzera. Suo compagno di viaggio  il carmelitano Genocchi. Erano entrambi  decisi a ripudiare il cattolicesimo per aderire alla fede anglicana, cosa che fecero veramente insieme col grande saggista, filosofo e giurista inglese  Francesco Bacone. Quest’ultimo era un filosofo empirista che incentrava le sue riflessioni nella ricerca di un metodo di conoscenza scientifico e naturale rifacendosi alle idee di grandi pensatori italiani del ‘400,  tra i quali ricordiamo  il grande Leonardo da Vinci.

Ciò naturalmente non piacque alle autorità cattoliche,  che  cominciarono  a perseguitarlo per paura che le adesioni al protestantesimo potessero moltiplicarsi. Così i due fuggitivi, mentre l’inquisizione già preparava un processo contro di loro, pensarono bene di scrivere  una lettera a Roma per ottenere la riammissione al cattolicesimo. Ma non c’era pace per i fuggitivi, perché questa volta furono gli inglesi a volerli processare e, mentre  Genocchi riuscì a fuggire, il filosofo fu rinchiuso nella Torre di Londra per ben 49 giorni. Siamo  ormai nel Marzo del 1614 quando egli riuscì a fuggire aiutato da alcuni amici tra cui l’ambasciatore spagnolo a Londra; così lo ritroviamo in Italia, a Genova per l’esattezza,  dove insegnò filosofia ai figli di Giacomo Doria, ma , quando l’inquisitore genovese fece arrestare l’amico Genocchi, riprese la via dell’esilio riparando a Lione dove pubblicò l’opera  “Amphitheatrum aeternae Providentiae Divino-Magicum” (L’anfiteatro divino magico dell’eterna Provvidenza). Scrisse quest’opera per difendersi dalle accuse di ateismo, ma stavolta fu accusato di panteismo.

Non c’era pace per il libero pensatore che imperterrito continuò  a diffondere le proprie idee  scrivendo il “De Admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis” (I meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali), che venne pubblicato  a Parigi con l’appoggio di due teologi della Sorbona, che ne autorizzarono la pubblicazione  suscitando  l’ammirazione di quei francesi che guardavano con interesse  alle innovazioni culturali e scientifiche provenienti   dall’Italia.

I conservatori cattolici  invece attaccarono nuovamente Vanini e la sua opera venne bruciata perché ritenuta eretica mentre   la Congregazione dell’Indice lo pose nella prima classe degli autori proibiti.

 Giulio Cesare continuò a vagare  per varie località della Francia meridionale, protetto da molti aristocratici amanti degli spiriti liberi che lo chiamarono ad insegnare filosofia ai  propri figli.

Quando giunse a Tolosa,  venne arrestato il 2 agosto 1618  senza un’accusa precisa ma per conoscere finalmente  quali fossero le sue idee in materia di religione e morale.

Si tentò di condannarlo a tutti i costi convocando anche molti testimoni, senza accertare nulla di preciso. Infine, il 9 febbraio 1619, il parlamento di Tolosa lo condannò ritenendolo ateo e bestemmiatore. La sua morte fu qualcosa di atroce come si evince dalla descrizione che ne fa il filosofo Cesare Teofilato:

“Fu fatto salire sul carro, che doveva trasportarlo al luogo del supplizio. Allora egli, dotto nel classico idioma dei romani, esclamò:

-Andiamo,andiamo a morire allegramente da filosofo-

………………………………………………………………………………………….Come decretato dalla sentenza, fu legato ad un palo. Si doveva strappargli la lingua ma, poiché Giulio Cesare si ostinava a non cavarla fuori, il boia ricercò con le tenaglie nella chiostra dei suoi denti e la lingua divelta cadde a terra, brandello sanguinante di carne………………Dopo lo strappo della lingua lo strangolamento, dopo lo strangolamento il fuoco. Così decretava la sentenza.”

Aveva soltanto 34 anni!!!

Questo martire del libero pensiero è poco conosciuto forse perché i suoi testi furono in gran parte bruciati o forse perché le sue continue peregrinazioni ne fecero spesso perdere le tracce, eppure grande fu il contributo culturale che egli lascò all’umanità: fu precursore di Darwin asserendo che l’uomo proveniva dalle Scimmie e da altri progenitori comuni, fu grande naturalista in accordo con gli studi di Bruno, Telesio, Campanella, negò l’immortalità dell’anima secondo l’insegnamento del Pomponazzi e si erudì secondo il pensiero del Machiavelli, che predicava la laicità dello Stato. Definì  i miracoli suggestioni della mente umana e rifiutò la maggior parte dei dogmi dell’ortodossia cattolica.

Molto apprezzato dai filosofi d’oltralpe quali Gassendi e Bayle,  fu un vero precursore del sapere e illuminò, col suo pensiero, la strada degli uomini liberi che cercavano la verità senza essere soggiogati dalla paura dell’inquisizione che Paolo III  con la bolla “Licet ab initio“trasformò nel  “Santo Uffizio”. Tale istituzione permane ancor oggi sotto il nome di “Congregazione per la dottrina della fede”, i cui compiti sono specificati nel “Pastor bonus” di Giovanni Paolo II e della quale fu prefetto anche il cardinale Ratzinger prima di diventare papa.

Chiuderei questo mio breve scritto ricordando come, nell’uso comune della parola dare del libertino a qualcuno significherebbe bollarlo come un uomo di facili costumi, una sorta di dongiovanni da strapazzo, quale quello rappresentato dal celebre personaggio di Molìere, ma se la parola “libertino” la usiamo per definire l’appartenenza al movimento filosofico del ‘600, allora il termine acquista tutt’altro significato perché entriamo nel campo della speculazione filosofica, nel primato della ragione sulla fede, laddove al dogma dell’ortodossia religiosa si contrappone l’incontrovertibile verità che scaturisce da un’attenta osservazione dei fenomeni naturali, da un’analisi profonda delle leggi che regolano il divenire fuori da ogni costrizione fideistica, tipica di tutto il periodo medioevale.

Libertinismo significa emancipazione con un preciso riferimento etimologico alla parola latina “libertus” nome dato allo schiavo romano che riscattava la sua libertà. Il libertinismo nacque soprattutto nella Francia del primo ‘600 come reazione alla restaurazione cattolica voluta dal concilio tridentino e, per quanto non si possa ancora identificare con l’illuminismo, pure in esso ne troviamo i primi germogli che, a ben guardare, dimoravano in un letargo secolare fin dal tempo dei presocratici e poi in un Aristotele biologo non ancora inficiato dalle manipolazioni medievali. Democrito, Leucippo, Epicuro poi Lucrezio  ne saranno le colonne portanti e forniranno spunti di meditazione a tutte quelle scuole di pensiero che in tempi e luoghi diversi vorranno cercare la Verità, “l’aletheia” greca intesa come meraviglia, rivelazione, ricerca appassionata di un Dio che si manifesta nella Natura perché è in tutte le cose.

Il panteismo sarà infatti l’alta concezione che di Dio hanno i libertini, deisti che si sforzavano di cercarlo con l’uso della ragione, scevri da ogni condizionamento ambientale. Tali convincimenti li accostavano molto a Giordano Bruno con il quale condividevano anche l’idea della pluralità dei mondi e la concezione di un Universo infinito. Ma se la Storia si ricorda di commemorare Bruno bruciato vivo a Campo de’ fiori,Campanella che dovette fingersi pazzo, o Galileo e la sua celebre abiura, pochi conoscono la figura del salentino Vanini che non fu meno pervicace degli altri eroi del libero pensiero nello sfidare il giudizio del potere temporale della Chiesa.

Giulio Cesare Vanini era il principe dei libertini italiani perseguitati non solo  perché furono strenui difensori del libero pensiero ma perché giunsero   a farsi beffa del dogma e della morale cristiana. In questo senso va letta  l’opera Amphitheatrum” che solo apparentemente mirava a difendere il dogma cattolico rivelandosi invece, dopo  un’attenta lettura, un’evidente  canzonatura di questo. Vanini, per quanto   esponesse  le sue teorie presentandole non come proprie, ma come appartenenti ad un fantomatico   miscredente  e per quanto fingesse di scandalizzarsi delle idee liberali da quest’ultimo espresse, fu sempre riconosciuto nella sua vera veste di ideatore e divulgatore del sapere laico e scientifico. Pagò con un’orribile morte la sua grande apertura mentale,  ma lasciò un messaggio che non possiamo ignorare. Pur nel rispetto assoluto dei credo altrui, non si possono   condannare né un ateo né  un agnostico specialmente quando essi  siano  pervasi da quel fuoco del sapere che va a tutto benefico dell’umanità,  accrescendone  la cultura  e l’evoluzione gnoseologica.  Rendiamo omaggio al nostro conterraneo e facciamo in modo che di lui non ci si possa dimenticare  mai. Dino Licci


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