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Giuseppe Ayala: Chi ha Paura Muore ogni Giorno

Creato il 03 dicembre 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Giuseppe Ayala: Chi ha Paura Muore ogni Giorno

Per la prima volta, posso ben dirlo, ho recensito uno spettacolo “a sorpresa”. L’espressione mi sia concessa perché davvero, in cammino verso il PalaFlaminio di Rimini, non avevo la minima idea della rappresentazione a cui mi apprestavo ad assistere. E se la tematica poteva essere agevolmente immaginabile, tutto il resto era per me motivo di grande curiosità: perché mai Giuseppe Ayala, il Pubblico Ministero dei più grandi processi di mafia, uno dei componenti del formidabile pool di giudici che fronteggiarono Cosa Nostra si è messo a recitare? Avrà un copione, mandato giù a memoria? Sarà solo o affiancato da un cast di attori, e ci saranno musiche e scenografie colorate? Pochi attimi, per soddisfare i miei dubbi e svelare al pubblico romagnolo i motivi della tournée dell’ex magistrato: ovvero quello di ricostruire, con l’esattezza e la precisione di uno dei protagonisti, una pagina tragica della nostra storia recente, raccontare i particolari di un formidabile esempio di impegno civile e professionale, ma soprattutto onorare, a distanza di vent’anni dalle stragi, due indimenticabili amici e colleghi. Ricordare Falcone e Borsellino in una maniera davvero singolare, umanizzandoli e smitizzandoli: «Perché per combattere la mafia non occorre affatto essere eroi, né marziani, loro non lo erano nemmeno un po’. Basta essere uomini, certamente con gli attributi, ma pur sempre uomini comuni». Il risultato, diciamolo subito, sono state due ore di spettacolo emotivamente forte, quasi magnetico per chi guarda a quelle vicende con interesse. Con la voce roca di Ayala in primo piano, a sciorinare incessantemente fatti, numeri, dettagli, e con uno schermo, in sottofondo, a proiettare filmati d’epoca da cui trarre spunto. Nessuna traccia, anche minima, di retorica, ma solo graffiante ironia, riflessioni, alternate ad amare stilettate alle istituzioni ed ai legami, mai troppo acclarati, tra mafia e politica. Ed anche, incredibilmente, risate: «Giovanni Falcone era un timido, dotato di un umorismo che definirei quasi demenziale: a volte, invitato a cena, citofonava più volte a casa mia e non smetteva di suonare finché mia figlia non avesse risposto “Pronta!”, anziché “Pronto!”, dal momento che era una bambina e non un maschietto. Un giochetto che divertiva i miei figli, che impazzivano letteralmente per lui. Paolo Borsellino era un uomo semplice, di straordinaria ironia, amava prendere per i fondelli persino sé stesso: un giorno mi disse di essere in crisi perché avrebbe dovuto votarmi alle elezioni, e la cosa gli procurava malessere. Una delle nostre più fedeli compagne di viaggio è stata l’ironia. Noi ridevamo per non piangere, perché eravamo accomunati da una qualità di vita che definire di merda è riduttivo: lavoro a tonnellate, consapevolezza dei rischi, una esistenza severamente blindata, con rinunzie e sacrifici. Per questa vita così difficile e complicata nessuno, dai palazzi istituzionali, ci ha mai ringraziati».

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Non solo risate, dunque, ma anche un impegno scrupoloso e certosino. Uno dei passaggi più interessanti del racconto di Ayala è dedicato al metodo di lavoro: «Giovanni sosteneva che la droga poteva anche non lasciare traccia, ma i trasferimenti di denaro ne avrebbero lasciate sicuramente. Gli accertamenti bancari costituivano uno dei pilastri del metodo Falcone. Molti istituti ricevettero, a firma sua, precise richieste di trasmissione, ed il suo ufficio fu invaso dagli scatoloni contenenti documentazione contabile, che spesso risultava decisiva per ricostruire i traffici mafiosi. Un altro dei pilastri furono i viaggi, perché Giovanni non si accontentava di ricevere informazioni dall’estero, ma preferiva indagare personalmente. Per questo girammo molto, tra USA ed America Latina, e la fama di Falcone crebbe a tal punto che il Presidente George Bush, in visita nel nostro Paese, chiese espressamente di incontrarlo. In Brasile ricordo l’accoglienza del Ministro della Giustizia che ci chiamò “eroi della magistratura mondiale”. Ricordo che ci guardammo, e con un sorrisetto complice sussurrammo “Minchia!”». Proprio quei viaggi costarono al pool le prime, grandi, amarezze: «Qualcuno maliziosamente iniziò a definire Giovanni “Il Giudice Sceriffo”, il “Giudice Planetario”, ritenendo inutili, eccessivi e pretestuosi quei viaggi, ed alludendo ai costi eccessivi, sostenuti con i soldi dei contribuenti. Accuse profondamente ingiuste». I miei anni con Falcone e Borsellino è una puntuale rassegna su undici anni di lotta alla mafia (1981-1992), sull’interminabile sequenza di fatti di sangue di quel periodo, dalla strage della Circonvallazione all’omicidio del Generale Dalla Chiesa, alle barbare esecuzioni di Ninni Cassarà e Rocco Chinnici; è, ancora, la completa ricostruzione del maxiprocesso, raccontata da uno dei protagonisti, e degli aspetti più inediti dell’apporto di pentiti e confidenti, con un interessante approfondimento dedicato a Tommaso Buscetta. A cui, è bene ricordare, solo Falcone riusciva a parlare con efficacia, con un linguaggio che lo avvicinava al boss, e che lo rendeva, ai suoi occhi, affidabile e credibile. E che permise, al pool dei Giudici Istruttori, di riempire le 329 pagine di verbale che fecero tremare la Cupola.

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Ma è anche la narrazione di un’amicizia fortissima, di una simbiosi totale fondata sulle soddisfazioni professionali e sulle sofferenze: «La paura, quando è condivisa, ha una sorta di trasmissione circolare: ciascuno porta il pezzo che ha dentro ma percepisce perfettamente l’analogo pezzo che è dentro all’altro, e questa somma di paure provoca una sensazione sgradevole, di smarrimento. Però nel nostro caso con la stessa circolarità si trasmise anche l’antidoto alla paura, cioè quel pezzo di fermezza, che ciascuno di noi aveva dentro e che percepiva esattamente nell’altro. Questo pezzo di fermezza ci fece andare avanti e non ci fece mai piegare la schiena». Fino all’epilogo, che Giuseppe Ayala non colloca nel 1992, anno delle stragi, ma nel gennaio 1988. Ovvero nel momento in cui il CSM scelse, per sostituire Caponnetto alla carica di Procuratore Capo di Palermo, Antonino Meli, un magistrato che non si era mai occupato di Mafia: la più grande delusione di Falcone, il successore annunciato, un inquietante voltafaccia da parte delle istituzioni, ma soprattutto la concreta ed immediata disgregazione di un formidabile gruppo di lavoro: «In quel preciso momento, Giovanni e Paolo capirono che era finita. Ed io, di lì a poco, dovetti assistere al massacro dei miei colleghi ed amici. Andai a trovare Falcone all’obitorio… sembrava quasi che dormisse, se non fosse stato per un minuscolo graffio sul viso. Di Borsellino, invece, in Via D’Amelio riconobbi solo i denti… il resto erano brandelli di carne. La Mafia uccide quando ricorrono due condizioni, quando si è ancora pericolosi e quando si è soli». Un saluto all’albero Falcone, il ficus piantato davanti l’abitazione del giudice, ricostruito sul palco del PalaFlaminio di Rimini, e le lacrime di commozione, salutate dagli applausi di un pubblico entusiasta di un omaggio mai così doveroso, vero, profondo.

 

Nell’immagine di copertina Giovanni Falcone e Paolo Borsellino


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