di Patrizia Poli
“Aveva ragione lord Byron, siamo posseduti da spiriti animali, bestie invisibili prendono il potere in noi, si insediano nel nostro spirito, e sono benevole o malevole secondo il caso.”
Ormai Giuseppe Benassi ci ha abituato ai casi dell’avvocato Borrani e ai gialli che sono pretesti per disquisire d’altro. Questo “Spiriti animali”, tuttavia, si spinge oltre, diventando quasi “romanzo di conversazione”.
Gli spiriti animali sono quelli evocati dal satanico e ribelle lord Byron, simbolo di trasgressione. In ogni persona, Borrani, ispirato da Byron, vede un rappresentante del regno animale, con vizi e bassi istinti ma anche con tanta energia pronta a deflagrare.
“Era sempre la stessa storia: crediamo di conoscere chi abbiamo sott’occhio tutti i giorni, e poi ci si rivelano tratti sepolti, sconosciuti, di cui eravamo del tutto ignari. Il cervello animale che prende il sopravvento su quello umano. Ogni uomo è una foresta in cui si nascondono folle di bestie.” (pag 67)
È quello che Goleman chiama sequestro neurale, spesso scatenato dall’ipofisi, sede dell’istinto, in contrapposizione con la corteccia frontale, dimora della civiltà e dell’inibizione.
Di tutti i romanzi di Benassi questo è il meno intellettuale, il meno alchemico ed esoterico, ma quello in cui forse l’autore più si mette a nudo. Quegli stessi impulsi forieri di lussuria e violenza sono, ci fa capire, anche portatori del loro contrario.
Gli spiriti animali irrompono in una vita che è “sull’orlo di una crisi di nervi”. Leopoldo Borrani, l’avvocato livornese, intellettuale, antipatico e sessuomane, sente arrivare i sintomi della depressione, ciò che un tempo si chiamava esaurimento nervoso. Ha un’età e comincia a considerare concretamente l’ipotesi di non rimanere più solo, di sposare la Marianna Messori, l’amante che ora chiama “fidanzata”, come la Livia di Montalbano, fra liti e riappacificazioni. Non vuole arrendersi ai farmaci ma nemmeno al vuoto, all’aridità di una condizione che è deserto e macerie, dove non si riescono a instaurare rapporti veri e profondi, dove i nostri simili ci annoiano, sono bestie deformi, avide e volgari, sono, come le definisce Borrani, “insopportabile umanità”, dove il narcisismo ci fa specchiare in una pozza che rimanda solo la nostra immagine, anch’essa distorta e tediosa.
“Fai uno sforzo, Borrani, stai diventando insopportabile, selvatico, ancora un po’ e sarai del tutto uno zitello inacidito; sforzati almeno un po’ di essere socievole, non sono tutti stronzi e stronze, c’è anche del buono nel tuo prossimo; se aiuti qualcuno, il bene che fai ti torna indietro, almeno provaci, accorgiti che esistono anche gli altri, che anche gli altri fanno degli sforzi per sopportarti, che non sei tu il centro del mondo, che hai dei difetti di carattere, e se sei intelligente come credi lo devi pur capire…” (pag 72)
Gli spiriti animali si concretizzano in un cane, Cioppi, lasciato in custodia all’arcigno avvocato da una cliente sudamericana in guerra col marito. Cioppi scatena un’imprevista simpatia nell’animo disseccato di Borrani, fa emergere, per contrasto, l’umanità che c’è in lui, spingendolo a gesti di bontà, alla ricerca del Bene per il suo prossimo. Sentirà quindi - davvero o solo come atteggiamento di maniera, come “lacrimetta in fin di vita” - il bisogno di essere più gentile con i suoi dipendenti, più affettuoso con la fidanzata, di rimediare a tutta l’anaffettività sin lì provata.
Allo stesso tempo, però, il contatto con l’animale lo porta avanti lungo una strada pericolosa che, se proseguita, potrebbe addirittura sfociare nella sodomia, fargli compiere il balzo fino a quel momento solo immaginato come peccaminosa, appunto byronica, possibilità. Tutto si mescola nell’immaginario perverso di Borrani: la lingua amorevole e calda del cane, l’accappatoio intriso dell’odore del giovane praticante Pippi, la vagheggiata terza tetta dell’esotica cliente. Sono particolari morbosi, frutto di una mente eccitata e malata che necessita sempre di continui stimoli, disgustata dalla vita quotidiana, dalle giornate passate sui bagni Pancaldi a sentir ragionare donne finte intellettuali astrofile.
Ancora una volta, la parte migliore e più autentica del libro è la descrizione di Livorno, a momenti lirica
“L’odore di salsedine si mischiava a quello dei fiori appena sbocciati. Il sentore delle alghe appena putrefatte che le onde avevano sospinto sulla spiaggia di sassi metteva voglia di mare. Le finestre delle casine dell’Ardenza eran tutte spalancate, bocche che respiravano come esseri viventi.” (pag 137)
a tratti plebea
“dal porto usciva proprio in quel momento, scurreggiando una sonora fumata nera, un traghetto”
con le rappresentazioni dei bagni affollati, del mercato, delle donne del popolo con i piedi sudati, le caviglie gonfie e la borsa della spesa.”
La materia umana è sempre ripugnante in Benassi, solo la natura ha un afflato incontaminato, è limpida come l’arte, come la ragione pura. Solo così, solo fondendo alto e basso, integrando anima e natura, intelletto e istinto, l’uomo alienato, spaesato, debosciato, disadattato, può sperare, non tanto di superare la sua condizione di depresso, ma almeno di tirare avanti, riunendo in sé il doppio, il Giano bifronte, lo spirito e l’animale.
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