di Augusto Benemeglio
Nessuno a Gallipoli pianse la morte di Giuseppe Castiglione, avvenuta il 14 luglio 1866, nella sua povera casa sita sul versante di scirocco della “città bella”, alle spalle della cattedrale, dopo lunga e dolorosa (atroce) malattia, per un cancro alla gola che gli impedì, negli ultimi giorni, non solo di parlare, ma perfino di deglutire: soffriva in modo tale che scrisse su un bigliettino al medico,Emanuele Garza, che ogni tanto lo veniva a visitare: “Dottore se lei non mi uccide commette un delitto”.
Non lo piansero nemmeno i parenti nobili, i Briganti (sua nonna Vincenzina era figlia del famoso Tommaso, giureconsulto di statura europea, che aveva dato lustro a Gallipoli e all’Italia), a partire dal cugino Domenico che, da Sindaco di Gallipoli, aveva fatto di tutto per farlo uscire dal suo endemico stato di bisogno economico, senza riuscirvi, per assoluto menefreghismo da parte di Castiglione, che si considerava un bohemien, un artista, e voleva vivere come tale, pur avendo moglie e figli da mantenere.
Certamente non lo rimpiansero gli altri intellettuali dell’aristocrazia gallipolina, per i suoi continui cambi di bandiera, dal punto vista politico. Politica che non aveva mai ben compreso, tanto da far dire a Emanuele Barba – che pure lo stimava come poeta – che in lui “non albergarono mai gli alti sentimenti di carità verso il prossimo, e di fraterno affetto”, alludendo al fatto che non si era allineato con un partito progressista e umanitario di quel tempo.
E men che meno lo pianse il popolino, verso cui si era dimostrato democratico solo per chiedere soldi in prestito, o far crediti dai fornitori. Era debitore verso tutti, dal lattaio al verduraio, dal panettiere al macellaio, aveva chiesto soldi perfino al bidello della scuola dove di tanto in tanto faceva qualche lezione Tutti, o quasi, a Gallipoli, vantavano un piccolo credito nei confronti di “don Pippi” Castiglione.
Insomma era riuscito nella non facile impresa di essere da tutti considerato un fallito e un parassita, a trecento sessanta gradi.
Eppure Giuseppe Castiglione è stato senza alcun dubbio uno dei pochi scrittori di talento dell’Ottocento gallipolino.Ha scritto romanzi importanti come “Roberto il Diavolo”, dramma storico nel pieno filone romantico dei maggiori scrittori del tempo(Tommaso Grossi, Cesare Cantù, Giuseppe Guerrazzi, per non parlare del Manzoni che sicuramente il Nostro conosceva bene tanto da dedicargli un’ode assai enfatica e mediocre), che rievoca il famoso assedio dei veneziani a Gallipoli avvenuto nel maggio del 1484.
Il romanzo era stato pubblicato dalla più importante casa editrice napoletana, la Vaspandoch, che aveva messo in stampa in tre tomi – odi, odi! – nientemeno che i “Promessi sposi” di Alessandro Manoni (va detto che allora non esistevano i diritti d’autore) ed aveva ottenuto un buon successo di critica e di pubblico, tanto da far scrivere al Castiglione, – che sembrava ormai avviato verso una luminosa carriera di romanziere – : “Ecco, vedo coronato il mio sogno, vivere solo di letteratura”. Ma allora sperare di vivere facendo lo scrittore era pura utopia: perfino Leopardi non ci riuscì, ma anche lo stesso conte Manzoni, che non aveva problemi economici, quando volle stampare in proprio, ci rimise di tasca una somma piuttosto cospicua, ben centomila lire di quell’epoca.
Ma la validità del romanzo di Castiglione è rimasta intatta nel tempo, se è vero come è vero che anche un secolo dopo, ai tempi nostri “La vendetta gallipolina”, piéce teatrale che il canonico Don Sebastiano Verona aveva tratto pari pari dal romanzo, e messo in scena negli anni 1974-1977, ottenne uno storico strepitoso successo, con numerosissime repliche, a cui partecipò praticamente l’intera popolazione di Gallipoli e dei paesi limitrofi. E successivamente, siamo già al terzo millennio, il maestro Enrico Zullino ne ha tratto un’opera lirica assai robusta ricalcando certi schemi tipici del romanticismo verdiano.
la seconda parte verrà pubblicata domani>>