“Cos'è il lavoro? Non è pittura, doveva essere musica all'inizio e lo è ancora, in parte è letteratura, in parte filosofia. Forse sono solo battute satiriche perchè io non credo di essere un poeta. Ma questo gioco di definizioni non mi dispiace, non mi dispiace questo ballo di aggettivi”. Sono solo alcune parole che Giuseppe Chiari (Firenze 1926-2007) pronunciò in una delle famose “Conferenze” che era abituato e tenere indifferentemente in gallerie, teatri, locali, ma che possono far intuire l'estrema versatilità che ha attraversato come una scossa tutta la sua attività. Il suo è stato un percorso dialettico, dove teorie, composizioni, esecuzioni si sono intrecciate, trasgredendo ogni discorso disciplinare. Tanto che se mai ci fosse un termine capace di definire le sue azioni, quello potrebbe essere “improvvisazione”: un modo di fare privo di sostegni programmatici, di regole di preparazione. Egli invitava lo spettatore a “strimpellare”, sottolineando che non ha importanza ciò che suona, ma solo che suoni. “La musica è suonare”. “La musica è vita”, diceva.
E la quindicina di strumenti musicali (tra cui chitarre, violini, trombe) che espone la galleria “Incorniciarte” vogliono proprio rappresentare una chiara interrogazione di quella che è l'identità della musica e il suo potenziale comunicativo. E' vero che la loro superba eleganza pare subire una sorta di sfigurazione o di oltraggio, in quanto essi sono “imbavagliati” da nastri adesivi, come dire che non possono più essere suonati: che sono oggetti destituiti di senso, puri scarti. In realtà il fatto di essere sigillati come sepolcri di memorie indistruttibili, mantiene questi strumenti pienamente attivi come splendidi simboli di una musica ancora vivibile, oggetti muti che possono tornare a parlare attraverso l'istintiva poesia di segni e di colori. Chiari in qualche modo provoca l'oggetto-strumento come un pittore provoca la tela e lo fa accostando ad esso partiture, macchie colorate, minuscoli pezzi di carta, pagine di giornale (con immagini di jazzisti come Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Louis Amstrong o figure mitiche come Andy Warhol e Marylin Monroe). Così anche i fantasmi musicali si trasformano in fatti acustico-visivi, in una coniugazione di colori e suoni che sembrano derivare da quel flusso vitale che è l'esistenza.
E poi ancora partiture, foto, disegni su spartiti, istruzioni per l'esecuzione di gesti musicali, testi di una sola battuta (Tutte le opere sono opere, Art is easy, Tutti insieme): sono affermazioni che si ripetono nel tempo e che testimaniano la volontà di Chiari di superare l'idea di arte come linguaggio codificato e di mantenerla in uno stadio di perenne apertura e avventura. Niente da dichiarare, niente da dimostrare. Sulle tracce di “Fluxus” per il quale l'importante è “lasciare che le cose siano quelle che sono”, anche Chiari scrive: Dont take paintings off the wall thank you (Non togliere i dipinti dal muro grazie). Tutto deve rimanere dentro una dimensione ludica, essere uno sguardo di sorpresa, un gesto gratuito. E' come invitare lo spettatore a riappropiarsi delle sue azioni elementari, quasi infantili, a partecipare direttamente all'opera. L'arte è aperta a tutti, perchè l'arte è vita. (dal testo in catalogo di Luigi Meneghelli)
Galleria Incorniciarte