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Giuseppe Conte e la poesia

Creato il 03 agosto 2012 da Viadellebelledonne

Giuseppe Conte e la poesia

 

Un giorno se mi leggerà

 Un giorno se mi leggerà il lettore del

terzo millennio, saprà che c’erano gli
alberi e i desideri, le palme e i pini, e gli
eucalipti dalle foglie a quarto di luna, e le

rose: chi non voleva più soffrire, e chi
voleva amare tutto, chi di se
stesso faceva dono e dei poemi
violenti e lontani erano, semplice e
deboli.

Partigiano della pace

 Ho patito la guerra

nell’anima e sin quasi
nella carne: mi serra
lo stomaco e la gola
la morte per fuoco che cola
su Baghdad degli innocenti
l’urlo dei superstiti
intorno al mercato sventrato
il sorriso rubato
falciato dei bambini
che ora hanno moncherini
al posto della braccia.
Di pietà non c’è traccia
per la bellezza di ieri
per gli angeli dei Sumeri
per i libri scritti alle origini
su Gilgamesh e su Noè.
Contano i generali
i danni collaterali.
Morti lasciati alle mosche,
piccoli uccisi a un check-point,
bare che tornano a casa
avvolte dalle bandiere.
Poi arriveranno calme
le petroliere?

 Salmo 2 (A Yves Bonnefoy)Oso invocarti in questa Europa cieca

sfiancata da calura e siccità
corrosa da diluvi e frane
continente di cenere e liquami
dove sono sovrani incontestati
Nulla e Ipermercati.
Oso invocarti e sperare, Poesia.
Senza essere né Davide né Salomone
senza possedere né Betsabea né la Sunemita
e senza conoscere il linguaggio
degli sparvieri o delle formiche
io ti invoco, ritorna
ritorna come un maggio
luminoso-selvaggio
e come il primo raggio
soffiante-biancheggiante
dell’alba.
Ritorna, ritorna.
Ritorna foreste, anime, cattedrali.
Ritorna azzurri giardini orientali.
Ritorna, ritorna
Vergine, Venere, Africa.
Non sarai più la stessa,
migrerai, muterai
e noi non ti vedremo come non vide
Mosè la Terra Promessa.
Ma ritorna, ritorna, Poesia.
Oso invocarti e sperare.
Seduto sulla sponda del torrente in secca ad aspettare
e ancora tra le rovine a cantare.

Un autunno come quello

 Dammi un autunno come quello

degli alberi, mia vita.
Il tremolio glorioso e tintinnante
di una luce superstite e infinita,
di esistere ancora la voglia,
il sogno di essere il sole che fa ogni foglia
prima della caduta.

Qualcosa di così immenso

Com’era diritto mio padre

quando saliva le scale

di ritorno dall’ufficio
e le nostre vicine, le parrucchiere
lo salutavano: “dottore”.
Che passo veloce, sicuro.
Che doppiopetto, che cappotti portava
quando la domenica rientrava
forte come una folata di tramontana
da quei suoi segreti, fiabeschi
viaggi di fine settimana.
Fu proprio dalle falde del cappotto
che quella sera fece saltare
sul pavimento della cucina
per me il cucciolo promesso
il piccolo pastore tedesco
che poi chiamammo Sahib.
Ora finalmente ci penso.
Mia vita, non mi hai più regalato
qualcosa si così triste,
qualcosa di così immenso.

 

 

Il cellulare lasciato sul copriletto

 Sibila il cellulare

lasciato sul copriletto
nella mia camera d’albergo
simile ad un insetto
levigato, ingigantito.
Mi risveglio e lo prendo.
È la voce che attendo.
Ti dico grazie, vita.
Domenica mattina
e tu mi sei vicina
da un mare all’altro mare
va chiara la tua voce.
Forse tu mi vuoi ancora.
Miracolo che continua.
Luce di un’altra aurora.

Intervista a Giuseppe Conte

fatta nel 1998 da Vera Lúcia de Oliveira (Maccherani),
(nell’ambito di “Poesia a Palazzo dei Priori” del Merendacolo di Perugia e pubblicata sulla Revista da APIESP – Associação de Professores de Italiano do Estado de São Paulo, Insieme,n.8, San Paolo, Brasile, 2001, pp.74-77)

Giuseppe Conte è poeta, romanziere, insegnante, pubblicista e critico letterario. Nato a Imperia nel 1945, si è laureato in lettere moderne alla Statale di Milano nel 1968. Il suo percorso, scavalcando a ritroso tutta la modernità, riscopre le tradizioni e i miti più antichi (Grecia primitiva) ed esotici (celtici, amerindiani, orientali). Ha pubblicato le raccolte poetiche Il processo di comunicazione secondo Sade (Altri termini, Napoli, 1975), L’ultimo aprile bianco (Guanda, Milano,1979), L’Oceano e il Ragazzo (Rizzoli, Milano, 1983), Le stagioni (Rizzoli, Milano, 1988), Dialogo del potere e del Messaggero (Mondadori, Milano, 1992). Le opere narrative sono: Primavera incendiata (Rizzoli, Milano, 1980), Equinozio d’autunno (Rizzoli, Milano, 1987), I giorni della Nuvola (Rizzoli, Milano, 1990), Terre del mito (Mondadori, Milano, 1991), Fedeli d’amore (Rizzoli, Milano, 1993), L’impero e l’incanto(Rizzoli, Milano, 1995). Fra le opere di saggistica, citiamo La metafora barroca (Mursia, Milano, 1972), La metafora (Feltrinelli, Milano, 1981), Manuale di poesia (Guanda, Parma, 1995).

  1. Si sente nella sua poesia il fascino per altri popoli, altri mondi, un’ansia di uscire, di viaggiare, di avere esperienze a diretto contatto con la realtà mutevole del mondo. E c’è un’attenzione particolare per la tradizione religiosa, letteraria, culturale dell’Oriente, soprattutto quella del mondo islamico. Come nasce questa passione dalla quale si alimenta la sua opera?

La mia passione per altri popoli e altre civiltà antagonistiche rispetto a quella occidentale nasce nel cuore degli anni Settanta, mentre stavo scrivendo L’ultimo aprile bianco, e nascono dalla consapevolezza dell’inaridirsi delle fonti di ogni vitalità creativa nella nostra letteratura e dai primi segni della morte della natura, attaccata dall’uomo bianco, svuotata di ogni sacralità e di ogni energia divina.

All’inizio mi sono appassionato alle civiltà cosmiche e solari, come D.H. Lawrence, il mio maestro di allora, agli Etruschi magici e solari sconfitti dal pragmatismo militaristico dei Romani, agli Aztechi distrutti dagli Spagnoli, agli Indiani d’America cancellati in un genocidio dagli anglosassoni… Poi il mio sguardo si è rivolto alle radici celtiche della nostra Europa, anch’esse celate e cancellate, e all’Oriente mistico e pieno di Dio… Ho sempre avuto bisogno di movimento e di viaggi. La mia inquietudine, la mia disperazione trovano nella dimensione del viaggio una possibilità di lenirsi, di trasformarsi in slancio amoroso e vitale. Il mio viaggio in Oriente comincia dal Taoismo, poi prosegue con l’Induismo e infine approda alla mistica Sufi, che è turca, araba e persiana. Ho fatto viaggi che sono stati pellegrinaggi verso i maestri che ho scelto: sono stato nelle Montagne Rocciose alla tomba di Lawrence, sormontata da quella piccola bianca fenice, sono stato a Shiraz, alla tomba di Hafis, il più dolce tra i poeti mistici dell’Oriente.

  1. Quali sono i poeti, gli scrittori, gli artisti che l’hanno influenzata?

Shakespeare, Baudelaire, Eliot, D.H. Lawrence, Henry Miller nell’adolescenza; i canti dei primitivi, il giovane Montale, Sbarbaro, i romantici inglesi e tedeschi, soprattutto Shelley e Goethe, Foscolo, Whitman, Borges, che considero il maggior poeta della seconda metà del secolo. Pavese e Pasolini hanno avuto una influenza appena accennata. Dickens e Hugo per il romanzo. Tra i musicisti, Wagner e Scriabin.

  1. La poesia per lei sembra essere miracolo, momento fugace di bellezza e di mistero. Allo stesso tempo ha affermato in “Il segno della malattia”: “Così invece di prendere / vergini, navi, cavalli, terre, sanguini / sui fogli e contro il cielo”[1]. Come si può conciliare questa contraddizione? Che mistero è mai la poesia che contiene in sé sia la gioia che il dolore?

La poesia contiene in sé l’oscillazione eterna tra gioia e dolore, tra piacere e sofferenza in cui si manifesta l’essenza stessa del nostro essere uomini e il mistero della nostra presenza tra gli altri esseri sul pianeta. Goethe se ne accorse quando si domandò in quel verso supremo: “Perché tutto questo dolore (Schmerz) e tutto questo piacere (Lust)”?

  1. Lei ha affermato in una poesia “L’Italia è la mia lingua madre”. Mentre assistiamo ad un tentativo di recupero da parte di molti poeti dei dialetti – lingue locali, lingue regionali – lei esprime invece un senso di appartenenza ad una comunità che viene identificata come la lingua madre. Fernando Pessoa, al contrario, ha affermato: “La mia patria è la lingua portoghese”. Questa difficoltà ad identificare l’italiano come lingua madre viene dal complesso e frastagliato panorama linguistico che ancora oggi caratterizza questo paese?

Quando ho scritto “l’Italia è la mia lingua madre” volevo in realtà esprimere la mia totale disaffezione al mio paese natale tranne che alla sua lingua: l’unica cosa che mi importa dell’Italia è la sua grande tradizione artistico-letteraria, l’unico legame vero che ho con lei è la lingua che parlo e in cui soprattutto scrivo, l’unica cosa di cui ho nostalgia quando passo lunghi periodi all’estero. La lingua è la madre, la lingua è il rapporto con una comunità, la tradizione poetica di quella lingua la mia casa, dove abito tra Dante e Petrarca, Tasso e Alfieri, Leopardi e Foscolo… Questo naturalmente non mi ha impedito di viaggiare in altre lingue e in altre tradizioni, amandole tutte, in una piena adesione al concetto goethiano di Welt-literatur.

  1. Come vede la sua opera in rapporto alle esperienze precedenti, soprattutto i Novissimi, alla quale essa sembra porsi in posizione del tutto autonoma e persino antitetica?

Quando mi sono affacciato alla cultura contemporanea, studiando alla Statale di Milano negli anni Sessanta dopo gli anni torbidi e felici, astorici, pieni di sogni, trascorsi in un Liceo della provincia ligure, i Novissimi, il Gruppo 63, Sanguineti ed Eco dominavano la scena. Per un po’ li ho studiati e imitati. Ero allievo di Dorfles, e il mio aggiornamento sulle avanguardie internazionali è stato completo… Poi però mi sono ribellato alla cultura dell’avanguardia, a quel misto soffocante di marxismo e freudismo, di strutturalismo e neopositivismo logico: mi sembrava un nodo mortale, che spegneva ogni creatività poetica. La mia ribellione fu fare tabula rasa e tornare alle origini, al mito. Alla cultura del mito inteso come forma di conoscenza primordiale, da cui ripartire per rimettere in moto la macchina della creatività, del sogno, dell’utopia, della bellezza… Ho lavorato con un maestro come Luciano Anceschi, ho fatto parte della redazione della rivista Il Verri, quindi ho attraversato tutta l’avanguardia, e attraverso il ritorno a un mito reinterpretato ne ho rovesciato i principi, sotto l’influenza di pensatori come Hillman, Campbell, Eliade, Spengler, Junger… Così dai più mediocri esponenti dell’avanguardia stessa ho avuto attacchi e insulti, altri hanno creato intorno a me un clima di censura e di malevolenza…

Io però non ho mai aderito a una visione tradizionalistica della cultura e della letteratura, continuo ad essere con i miei libri, siano essi romanzi o raccolte di poesia, uno sperimentatore di forme e un innovatore, un ribelle, mentre gli ex avanguardisti sono diventati uomini di potere e nient’altro.

  1. Come vede la poesia italiana oggi? Può tracciarne un panorama?

La poesia italiana di oggi manca di grandi progetti di poetica, è di buon livello medio, ma non ha elaborato una visione complessa e completa del linguaggio e del mondo, non sente abbastanza il soffio del tempo e delle nuove esigenze spirituali. Perciò si è avviata a un destino di ghettizzazione totale e di penosa ininfluenza sulla realtà. Per mio conto, da anni mi sono ribellato a questo stato di cose, sino alla creazione del Mitomodernismo. Ho sempre sentito vicino Milo De Angelis, e poeti con cui ho intrecciato il mio percorso pur nell’assoluta autonomia degli stili, e penso a Rosita Copioli, Tomaso Kemeny, Mario Baudino, Roberto Carifi, Roberto Mussapi, o ai “neoantichi” Valentino Zeichen, o Renzo Paris…

Tra i più giovani, mi sembra che prendano rilievo i poeti della nuova rivista Fare anima, Gabriella Galzio, Marco Marangoni, Danilo Bramati, Nicola Ponzio, Lamberto Garzia… ricondotti dal crittico Giampiero Marano al Mitomodernismo stesso.

  1. Si sente nella sua poesia la ricorrenza del mito, che sembra avvicinarsi alla stessa esperienza poetica e persino religiosa. Ma che importanza può avere il mito oggi? Si può recuperare, in una società in cui domina il principio egemonico della ragione, il rapporto autentico con la mitologia, quella esperienza che Károly Kerényi ha definito come una grande realtà del mondo spirituale?

Quando parlavo di ritorno al mito negli anni Sessanta ero solo, a volte sospettato e vilipeso. Oggi si è visto che il ritorno, la rilettura in chiave nuova del mito è un fenomeno mondiale. L’importanza del mito è quella di una ribellione all’esistente, al dominio della ragione economica, al materialismo nichilistico, per cercare nuovi assetti dell’immaginario e nuove forme stesse di vita sociale e di civiltà.

  1. Che rapporto ha la poesia con la storia?

Un poeta solitario, disperato, impotente canta il mistero del mondo, e nel suo canto il mondo ricomincia, e cadono gli Imperi e nascono nuove forme storiche del vivere associato. Quando Tamerlano il distruttore arrivò alle porte di Shiraz, ordinò che la città fosse risparmiata perché lì viveva Hafis, un poeta Sufi che per tutta la vita non aveva cantato che di rose, giardini, vino, amore…

La poesia, eternamente, ci protegge, senza fuggirne, dagli orrori della storia.

[1] Giuseppe Conte, Dialogo del poeta e del messaggero, Milano, Mondadori, 1992, p.92.

Vera Lúcia de Oliveira, Perugia, 12 maggio 1998

(Giuseppe Conte)

 



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