“E nei bicchieri muoiono altri giorni”
Vittorio Sereni
Si dice che oggi in Italia sia più la poesia che viene scritta di quella che viene letta. Verissimo, a riprova di questo c’è un’overdose strutturale di pubblicazioni a pagamento di autori che così appagano il proprio ego in perenne crisi narcisistica e una minore ma comunque considerevole quantità di autorevoli testi di poesia che non ottengono che poche centinaia di lettori. Non so se questo sia il caso di tre tra i miei poeti italiani contemporanei preferiti, Roberto Carifi (di cui ho pubblicato qui una poesia e una recensione), Giacomo Trinci (di cui pubblicherò a breve un testo) e Giuseppe Grattacaso, tutte e tre pistoiesi in scia di un altro compianto pistoiese, quel gigante del ’900 che è Piero Bigongiari (di cui ho pubblicato qui un testo), ciò che è certo è che essi ottengono un’attenzione media assai inferiore rispetto al loro contributo letterario, che è invero enorme.
Tutti e tre i poeti compaiono frequentemente in quella meravigliosa libreria che è Lo Spazio di Via dell’Ospizio (leggi qui) e per la presentazione della nuova opera di Trinci, Inter Nos, essi erano riuniti nella stessa stanza. Il sottoscritto, uno che i poeti prima li deve leggere, poi guardare, meglio se a distanza di sicurezza, e poi conoscere, ha provato timidamente a portarsi nel taschino il libro di Grattacaso (di cui vi parlerò dal prossimo capoverso, abbiate pazienza) per una dedica, un autografo, un espediente qualsiasi, ma poi bisogna che rispetti questa assurda scaletta emozionale che la mia antica timidezza mi impone (anche se ormai solo davanti ai Maestri personali, per fortuna), che già mi impose per bieco esempio di stare quindici minuti a fissare estasiato e inebetito Carifi seduto sulla poltrona della libreria e almeno ignaro di me, prima di prendere coraggio e poterlo avvicinare in una seconda occasione a distanza di settimane e solo grazie a una comune amica, la poeta, artista figurativa e storica dell’arte Gianna Pinotti.
Ma chissenefrega dei miei cari amici e se mi tremano le gambe davanti ai giganti, penserà chi legge, e palla alla meraviglia, il nuovo libro di Grattacaso appunto, La vita dei bicchieri e delle stelle (Campanotto Editore, 2013). Diviso in cinque sezioni, Bava di vento, La vita dei bicchieri e delle stelle, L’atomo la polvere e le spore, L’anima e Quartine d’agosto, il libro conserva comunque una preziosa continuità di temi e contenuti oltre ad una soglia di qualità media tra le più elevate che mi sia capitato di trovare in un libro di poesia contemporaneo. A cambiare è la materia poetica, con vertiginosi salti dell’occhio poetante: al canto del mistero ineffabile dell’universo, “la stella/ che era l’ultima (ma prima di che cosa?)”, si contrappone in un dialogo tra ordini di opposte grandezze, i bicchieri della casa del poeta e altri elementi di utilizzo domestico che ci rendono “incerti sull’adeguatezza/ degli oggetti ad essere se stessi”, poi Grattacaso compie quell’atto prettamente poetico di nominare l’infinitesimale e l’invisibile cantando l’aria, la polvere, la luce nel “cedimento assoluto strutturale del vuoto, della mancanza universale” e accostarlo all’ingombrante o quotidiana materia, infine dando spazio alla dualità interattiva tra anima e corpo in cui è immediato raccogliere implicazioni personali esatte e profonde, ma anche umane e calde (“L’anima chiede la frase esatta”; “Il corpo è educato al fallimento”), e poi alla componente più concretamente esperenziale con le quartine finali, indolenti bagliori riflessivi (“La sera si consuma rossa e gialla/ Il cane avanza senza troppa voglia”).
Senza improvvisare formalmente i panni comodi del critico letterario per quella obliqua convinzione soggettiva che sia meglio astenersi dal giudicare opere attinenti a quella disciplina in cui poi ci si cimenta, il libro di Grattacaso è un libro che si divora e che avvince il filo sottile che avvolge gli elementi infiniti, concreti e infinitesimali dell’esperienza umana con grande musicalità. Marino Piazzolla scriveva che “la bellezza ha i suoi fulmini bianchi”. Eccone qui vari, caldi e limpidissimi, mentre ne riporto di seguito un lampo tra i più abbaglianti, la poesia che apre il volume.
Non c’è dubbio che l’universo espande
giorno per giorno, metro dopo metro, un poco
più universo avanti e indietro, in ogni
lato cresce ad ogni ora. La stella
che era l’ultima (prima di che cosa?)
ora non scorge più alcun confine
tra sé e il vuoto, sempre s’aggiunge
cielo al cielo, dilata il buio, nero
dopo nero. Sto qui in pensiero. Non era
l’universo già infinito?
Non era forma chiusa
ed assoluta? Ma se cammina
anche l’infinito, verso dove
si muove e come fa
a diventare più d’ora illimitato?
Rimango speculando sul pianeta,
che orbita tediato ed esitante,
da tempo più distante da qualcosa
che non sappiamo, insomma barcollante,
disorientato dentro l’universo
che si allontana e che diventa grande,
che giorno dopo giorno un poco espande
in soffi e leggerissime carezze,
miti bisbigli che aggiungono frammenti
di luce al buio, notte a antica notte.
PS: Giuseppe Grattacaso ha un blog personale dove scrive di letteratura e poesia, mosche in bottiglia, che vi consiglio e dove non è raro imbattersi in contributi rilevanti.