Giuseppe Leuzzi, recensioni (Enrico Filippini, Jehan Sylvius-Pierre de Ruynes, Chiara Frugoni).

Creato il 16 novembre 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

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  • Giuseppe Leuzzi

Enrico Filippini, l’ultimo viaggio si racconta meglio.

Si parta dalla fine, “Vesch”, un contributo al “Verri” del dicembre 1967 dedicato al teatro: è una singolare constatazione del fallimento dell’avanguardia, nel luogo della stessa avanguardia, e con l’intento di farsene mentore e interprete. Beffardo:“Non c’è Solvejg che tenga, il che è esemplificato, volendo, dal fatto che il teatro della crudeltà, in quanto Teatro resta un’utopia, in quanto Della Crudeltà è teatro della crudeltà nei confronti del teatro, e in quanto Teatro della Crudeltà non è propriamente teatro perché è un libro: Le Théâtre et son Double”. Della neo avanguardia, o Gruppo 63. Che magari non fallisce perché la sua cifra resta l’ironia, formidabile strumento passatista – “la cosa morta, sul catafalco, si muove”. O lettura saggia del reale, da realpolitiker, se si riflette che “la Rinascente”, ultimo luogo neo avanguardista del teatro, dopo le piazze, i talk show, i tinelli e l’analista, è diventato il luogo –tecnicamente il “non-luogo” – per eccellenza della socievolezza e la rappresentazione del reale – Filippini dice contemplazione. Nell’afasia. Le altre opere teatrali qui riunite, “Flettere flette amore” e “Giuoco con la scimmia”, riflettono questa impossibilità – l’ironia dissecca, a tan to più nella verbosità.

Si ripropone Filippini narratore e commediografo con le ultime celebrazione del Gruppo 63, Una neo avanguardia molto established, Furio Colombo, Eco, Sanguineti, Porta…, professori, dirigenti editoriali, politici. Filippini si toglie due anni, sì da potersi dire ventenne, e non già trentenne qual era. L’ultima avanguardia, vista cinquant’anni dopo, è autodistruttiva, sterile – questo si vede a Roma con malinconica esposizione celebrativa al Parco della Musica, curata da Achille Bonito Oliva, Porta, Spatola, Balestrini, Schifano, “I novissimi”, la dimenticata antologia poetica, e “La nuova letteratura”, l’antologia narrativa rimasta ignota. Il Gruppo 63 fu solo cassa d risonanza per i suoi autori. Molti dei quali non ne condividevano peraltro più o meno nulla, Eco furbesco, Arbasino divertito, lo stesso Sanguineti. È diverso per i racconti, meno programmatici. “Settembre” sì, un racconto sul modo di scrivere un racconto, è legnoso, da maestrino – specie al confronto con la presentazione, che Bosco riporta in nota, di Umberto Eco alla prima pubblicazione, sul “Menabò” del luglio 1962. Ma già con qualche notazione discorsiva: “Il vero personaggio”, benché ipotetico, “ha trent’anni, ed è spacciato”. Il racconto del titolo, l’ultimo di Filippini, che apre il libro, è invece accattivante: una sottile ma ribadita a ogni paio di pagine, martellante, forma di estraniazione. Di astensione. Qui come incapacità di amare, di empatizzare, entrare nell’altro. Con cui l’autore solo sa vivere come guardandolo al microscopio, vivisezionandolo anche, nervetto per nervetto. Conscio della propria impotenza. O dell’amore come fotogramma al montaggio, di un montatore freddo. Bravo perché freddo. Filippini è un fingitore che non sa o non vuole fingere. Per questo anche “scrive” poco. Scrive moltissimo, scrive ogni giorno, è la sua professione, di redattore, editore, inviato speciale,  ma poco come autore-fingitore. Una sorta di tantrista, che il piacere esercita in limine, con l’attesa, il rinvio, l’astensione. Di questa astensione riesce però a fare, specie in “L’ultimo viaggio”, quasi un romanzo, infine materia di racconto: l’estraniazione di un’estraniazione. Avendo deciso, da ultimo, dopo l’impasse cui confina la parodia, per lo “scrivere spoglio”. Sul vissuto proprio, delle “enormi stanchezze”, l’alcol, la salute, la solitudine (di Filippini, compagno muto di banco al giornale, resta l’immagine di una testa arruffata, al volante della indiscreta Dino-Ferrari rossa, in piazza Rondanini, una piazza minuscola al centro di Roma che allora era un parcheggio, che il suo sguardo smarrito dilatava e svuotava). Seppure praticando l’astensione: “So di cosa ho taciuto, ma non ricordo bene di cosa abbiamo parlato”, si dice. Un’esistenza forse, sicuramente una pratica letteraria dominata dalla dilettazione inconcludente. Alessandro Bosco, lo studioso che ne coltiva il patrimonio letterario, fa in questa svelta raccolta dei testi creativi – racconti e teatro – di Filippini quasi un’edizione critica. Piena di appigli coinvolgenti. Con un primo bilancio esegetico. Enrico Filippini, L’ultimo viaggio, Feltrinelli, pp. 293 € 9,50 ————— Jehan Sylvius-Pierre de Ruynes, La papessa del diavolo: Surrealista è la difesa del maschio, e dell’Europa “Roma, la Città Eterna, quel mattino riecheggiava del suono delle sue innumerevoli campane, l’esercito occidentale aveva, infatti, riportato una vittoria in Afghanistan”.  Questo è improbabile, ora come allora. E infatti il papa non ci crede. Scorrendo “i giornali a uno a uno”, mormora “con voce lugubre: Signore, Signore, perché ci abbandoni?” Si chiama Pio XIII, e forse per questo la serie d’improvviso s’è interrotta al Pio XII – dopo Pio XII ci sarà un ultimissimo papa, e si chiamerà Benedetto, nel libro beninteso. Pubblicata a Parigi nel 1931, la profezia s’inquadra nel “pericolo giallo”, che già ottant’anni fa infettava la “capitale dell’Occidente”. Il manifesto surrealista del 1925 l’aveva già proclamato: “Spetta ai Mongolo accamparsi ora nelle nostre piazze”. Per questa riedizione con più verosimiglianza. In apertura, un refuso mette i cavalli tartari e le orde “in marcia verso l’Oriente”, ma è della caduta dell’Occidente che si parla. Preda delle orde asiatiche, che non sarebbe una novità, e del femminismo. Questa seconda profezia non viene sottolineata in questa riedizione, ma è la chiave della storia, più della re-invasione. A capo dell’orda è una Diavola, l’Arcimaga, uscita dalle messe nere. E con notevole anticipo sulla teologia femminista, che Dio vuole madre. Nonché sull’ateismo contemporaneo, quello dello shopping, avido di ritualità – che è quello che i messaneristi soprattutto invidiano ai religiosi, il sacerdozio (i paramenti, le celebrazioni, le formule “magiche”). È un male? Gli autori, forse il satanista Ernst Gengenbach e il surrealista Robert Desnos, opinano per il no. A capo dell’orda c’è il piacere, in forma sadomaso. – il loro è un Occidente in vena di correzioni. Il racconto non è all’altezza della visione. L’Arcimaga ha una segretaria-schiava, “bionda e affascinante, alta e magra, il viso di un ovale puro, e lunghi occhi peni di sorprese”, che domina col feticismo, e alla cinquantesima pipa d’oppio diventa la sua servizievole amante. Valentina è molto meglio. La fine dell’Europa invece non è altrettanto ovvia. Crocifisso e bruciato il papa Pio XIII, resta il problema di eliminare tutte le croci del mini-continente. Che sono tante: quelle dei cimiteri, quelle dell’elsa delle spade, sia pure di rappresentanza, gli incroci stradali, “la forma crociata di certi fiori campestri”, e le parole crociate si potrebbero aggiungere.  “Gli elementi di resistenza morale erano forti e, malgrado il terrore, e la coda di esecuzioni e deportazioni massicce, le popolazioni rimanevano fedeli, in fondo al cuore”, fedeli all’Europa e a se stesse. Resistono, e sconfiggono l’invasore. Al comando in un giovane papa, che si farà chiamare Benedetto XVIII, un ninja della resistenza, invincibile, invisibile. La guerra, insomma, non è perduta, non ancora. La storia non finisce qui: il papa ninja soggiacerà al “mistero della donna”, e sarà la fine di tutto. Ma questa è un’altra storia: il surrealismo – Desnos ne è uno degli alfieri – sarà stato in realtà una ghenga d’uomini, in pettoantifemminista

Jehan Sylvius-Pierre de Ruynes, La papessa del diavolo, Castelvecchi, pp.  € 14,50

———————- Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, il cavaliere di Cristo. “L’ottica tutta vassallatica” del linguaggio di Francesco è dura da ingoiare ma nella preparazione del “santo” è indubbia: il Poverello di Assisi a lungo resta imbevuto di romanzi cavallereschi,di nobili cavalieri e principesse. Fino alla prova del fuoco, cui sfida il sultano d’Egitto Mālik Kāmil. Cavaliere è colui che si annulla nell’impresa, a maggior gloria di Madonna Povertà, del Re dei Cieli. Fino a rifare la Passione con le stimmate, Crocifisso deposto. Sempre devoto al suo re, che lo ama e lo protegge – Francesco ne ebbe tre, tre papi benevoli malgrado il suo radicalismo. È sulla scorta dei romanzi che Francesco si avvia verso la Puglia, a combattere per Gualtieri di Brienne, avviando l’avventura francescana. Parte anche per allontanarsi dalla vita familiare di negoziante di stoffe, e di piccola usura. A Spoleto, alla prima tappa del viaggio, si scopre già stanco, torna indietro, e riprende la solita vita, di scherzi e banchetti. Ma il rovello s’è già installato, che ne muterà i sogni di grandezza. Tutti sognano, del resto, nell’esperienza francescana: Francesco, i vescovi, i papi. Sogni decisivi. E usano per decidere le sortes apostolorum, così come ogni cavaliere decide per “segni”:l’apertura a caso dei vangeli, da cui trarre “a caso”, dove l’occhio si posi per prima, i precetti da seguire. “Francesco pensava con le sequenze del sogno, dove in  un attimo di congiungono tempi e luoghi; non calcolava secondo ritmi umani”. Una storia fin qui non eccezionale- come quella del papa: papa Francesco ha avuto anch’egli la vocazione tarda, sui 25 anni, e come il santo si fa sensibile e giulivo, non promuovendo rivoluzioni ma testimoniando la fede. Ma sì se si riflette che la “storia francescana”, leggendaria, rivoluzionaria e duratura, è durata vent’anni, non di più: il vero miracolo è questo. Sogni e chansons de geste: è il pregio di questa ricostruzione di Chiara Frugoni, allieva del padre Arsenio, lo studioso del sulfureo Arnaldo da Brescia. Che sa dirla breve e persuasiva. Arricchita, oltre che da tutta la letteratura del tempo, di cui Francesco era avido consumatore, dall’iconologia – miniature, rilievi, affreschi – che la studiosa padroneggia come le parole. Anche “il prodigio della predica agli uccelli” spiega che era in qualche modo già scritto. Il “Cantico delle  creature” naturalmente no, quello è un unicum. Ma, insomma, anche i santi hanno una storia. In aggiunta alle “fonti” formative di san Francesco, molto conta anche il modo, anzi i vari modi, come la sua brevissima e pienissima biografia fu gestita dopo la morte: si può essere santi per molteplici aspetti. Il Poverello di Assisi non fu prete né monaco. Fu un cavaliere della parola, con le armi della povertà volontaria: “Per Francesco il luogo della vita religiosa è il libero spazio da percorrere in un perpetuo cammino”. Un cammino di liberazione:“La povertà volontaria è libertà fisica – costringe a camminare e camminare –ma soprattutto libertà mentale”. Voglia e capacità di osare. Tutto è andato per il meglio, ma i suoi vent’anni di apostolato sono da don Chisciotte, niente in lui è meno visionario, nella gioia creativa invece che nella malinconia. Parlando il francese, fosse o non di madre francese, Francesco crebbe con i cavalieri della Tavola Rotonda e la poesia cortese. Fino al punto da derivare il nome come soprannome: “Può darsi che il sopranome sia stato dato a Francesco già grande per l’entusiasmo con cui leggeva, in quei tempi necessariamente in francese, le «canzoni di gesta», i romanzi di Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda”.Le sue gesta e anche il suo linguaggio ne risentiranno: tracciarne le fonti recondite è un’altra avventura, nella già eccezionale avventura del Poverello. È una tela di fondo che troppo spesso si trascura. Prima che di don Chisciotte sarà quella di una altro santo vicino a papa Francesco, sant’Ignazio di Loyola, che ne à lui stesso certificazione nell’autobiografia ch dettò, il “Racconto del Pellegrino” – Ignazio che “si convertì” cogitando: “Cosa avverrebbe, se io facessi ciò che ha fatto san Francesco e ciò che ha fatto san Domenico?” Non è la sola novità. Molto nella vicenda di Francesco contano i sogni, le visioni dei sogni. Dei sogni da intendere come “residui diurni”, delle letture le fantasie che le accompagnano. Dei sogni che informano una vita, tante vite, anche potenti. Negli esiti più inattesi, tragici, rivoluzionari – senza mai menzionare Freud, privilegio da medievista.

Chiara Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Einaudi.

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