Giuseppe Tucci arrivò nel “paese delle donne dai molti mariti”, il Tibet, nel 1928.
“Giuseppe Tucci è stato un visionario come lo erano i santi e i profeti di una volta” scrive di lui Stefano Malatesta, scrittore e reporter di viaggio, ” ma come questi avevano passato la loro vita a cercare gli dèi, cosi Tucci aveva passato la sua ad evitarli, almeno quelli delle culture monoteistiche. Il buddismo, questa forma suprema di laicismo scelta da anime religiose che non si adattano ad avere un pantheon di padri padroni sopra di loro, l’aveva messo in guardia sulla vanità e l’inadeguatezza della mente inutilmente sovrana del passato e del futuro, del prossimo e del remoto. E sulla necessità, imperiosa per gli uomini, di staccarsi dall’effimero tragitto che porta dalla nascita alla morte”.
“Quando io l’ho conosciuto”, racconta Malatesta, “aveva passato gli ottant’anni e si era appena rotto una gamba salendo in montagna. Sono stato per morire, mi disse, un’esperienza straordinaria. E chiaramente quella che seguì non fu una vera e propria intervista. Perché Tucci, professore e Accademico d’Italia, non era minimamente interessato a quello che noi dicevamo, mentre pretendeva la massima attenzione a quelle poche frasi che ci rivolgeva. Ci informò che il re del Nepal era stato a Roma e che dopo aver visitato il papa e il presidente Pertini, era andato da lui.
“Gli ho parlato in sanscrito, non lo sapeva”. Poi soddisfatto della malizia contenuta nella sua affermazione, prese da dietro la poltrona dov’era seduto una stoffa con la quale si cinse la fronte e si immerse nella lettura di un mandala dipinto su un tangka. Sembrava partito per terre molto lontane, poi riemerse dicendoci:
“La vita personale dovrebbe tornare a immergersi nella vita cosmica, immortale, quella di tutte le cose e di tutti i mondi che sono e che saranno. Allora non avremmo più paura di morire perché la morte apparirà nel suo vero significato”.
“Con Tucci”, narra ancora Malatesta, ” bisognava stare attenti a non dare interpretazioni basate su una conoscenza saltuaria e modesta. Era il tipo classico dell’uomo dai molti talenti e dai diversi aspetti di personalità che adoperava a seconda della convenienza e dell’utlità. L’aria svagata e assente di quel giorno non corrispondeva affatto al modo tranchant e spietato con cui liquidava all’università e all’Ismeo tutti quelli che riteneva inetti. Aveva immense capacità pratiche – chiunque avesse organizzato otto grandi spedizioni nel centro dell’Asia non poteva non averle – e anche una robusta dose di cinismo e di disprezzo per la politica. Tutto questo gli aveva permesso una certa disinvoltura nel farsi finanziare le spedizioni prima dal fascismo e poi dai governi democristiani del dopoguerra. Ma l’abilità nel destreggiarsi era un’attitudine totalmente priva di fini bassamente utilitaristici o di carriera, a servizio di una fantasia senza limiti e di una fortissima tendenza visionaria”.
Giuseppe Tucci cominciò da giovane a studiare il cinese, a tradurre dal sanscrito, “lasciandosi il persiano antico per i giorni di festa”. Ha insegnato in India dal 1926 al 1930, lavorato con Mircea Eliade, frequentato esploratorie ed esploratori come Sven Hedin, Paul Pelliot e Aurel Stein.
Nel 1929 riceve la nomina ad Accademico d’Italia e l’anno successivo ottiene la Cattedra di Lingua e Letteratura cinese all’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Nel 1932 diviene Ordinario di Religioni e Filosofia dell’India e dell’Estremo Oriente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma. Dal 1929 al 1948 compie otto spedizioni in Tibet – ivi compreso il Tibet Occidentale, territorio oggi in gran parte in India – e sei in Nepal dal 1950 al 1954.
Nel 1933, insieme a Giovanni Gentile, promuove la fondazione dell’Istituto Italiano per il Medio e l’Estremo Oriente (IsMEO), diventato oggi IsIAO, Istituto per l’Africa e l’Oriente, e ne è Presidente dal 1947 al 1978; nel 1979 ne è nominato Presidente Onorario. Muore a San Polo dei Cavalieri il 5 aprile 1984.
L’opinione corrente vede in Giuseppe Tucci il maggiore fra i tibetologi. Le numerose opere scientifiche da lui prodotte, hanno contribuito al diffondersi in Italia della conoscenza delle civiltà dell’Asia.
Il riconoscimento della comunità scientifica e politica internazionale si sostanziò attraverso l’attribuzione di titoli accademici, di onorificenze e di premi. Fra questi ultimi, quello che ebbe più caro fu il Premio Jawaharlal Nehru per la Comprensione Internazionale, istituito nel 1966 alla memoria di Martin Luther King Jr, attribuitogli nel 1976.
“Molto spesso Tucci”, conclude Malatesta, “auspicava il riavvicinamento tra la cultura occidentale e quella orientale. Eppure lui, meglio di chiunque altro, sapeva l’enorme distanza dei due modi di essere: ” Noi pensiamo che l’asceta dell’Oriente dissipi vanamente il tempo che passa correndo dietro a fantasmi e visioni. Loro hanno pietà di noi che andiamo alla ricerca di cose che non sono nostre e mai lo saranno.”
© Melissa Pignatelli
Fonte citata: Introduzione di Stefano Malastesta a Il paese delle donne dai molti mariti, Giuseppe Tucci, Neri Pozza Editore, 2005
Fotografie Neri Pozza.
Scritti di Giuseppe Tucci:
Indo-Tibetica; Tibetan Painted Scrolls; Il libro tibetano dei morti; Teoria e pratica del mandala; Santi e briganti nel Tibet ignoto, A Lhasa e oltre; Tra giungle e pagode; La via dello Swat; Nepal: alla scoperta del regno dei Malla; Tibet, paese delle nevi; Storia della Filosofia Indiana.