“Soltanto la poesia, l’ho imparato terribilmente, lo so, la poesia sola può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio s’accorge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la ragione e che l’uomo è molto meno regolato della propria opera che non sia alla mercé dell’Elemento”. (G. Ungaretti)
Come ogni vero poeta che si rispetti, Giuseppe Ungaretti riflette sui problemi dell’espressione poetica e dello stile come dimostrano alcune sue annotazioni uscite sulla rivista “La Ronda” nel 1922. Il poeta ermetico parte da un saggio di Jacques Rivière su Dostoevskij in cui si afferma che “gli abissi umani sono perlustrabili”. Rivière opponeva all’opera dello scrittore russo, l’arte francese, l’arte del romanzo francese, il metodo occidentale d’analisi psicologica. L’errore di Revière, secondo Ungaretti, era di credere che l’opera del grande scrittore russo potesse trasporsi in problemi di metodo, di analisi, di psicologia, generando in questo modo un buon romanzo di tipo francese. Dice Ungaretti:
“Se il buio non èun buio materiale delle cose, non la notte passeggera, non un effetto di fumo o di nebbia [...] ed è invece un buio dello spirito all’ultimo limite, come si farà a infrangerlo con le ridicole violenze e i lucignoli delle povere invenzioni nostre, quelle comprese della buona marca scientifica vantata da Rivière? Se Dostoevskij fosse stato francese, sarebbe stato tutt’al più uno Zola [...]. Rileggiamo Dostoevskij. Vi concontriamo una turba, ma è sempre la stessa persona che gira su se stessa, e il suo moltiplicarsi è derivato dalla vertigine del suo giro. Vano a Dostoevskij, e a chiunque, qualsiasi tentativo di definire logicamente tale fantasma facendogli assumere, comunque, un atteggiamento di controllo verso le circostanze”.
Ungaretti sa bene che per l’essere umano tutto poggia sempre su un fattore oscuro che non siamo in grado di misurare affinché possiamo fare chiarezza, anche se volessimo interpellare le “luci” proustiane o freudiane. Dobbiamo imparare a convivere con il mistero che è in noi, senza mai dimerticarcene e dè per questo che secondo il poeta l’arte per noi avrà sempre un fondamento di predestinazione e di naturalezza, ma, allo stesso tempo, anche razionale. Ma, come dice Ungaretti, trovata la via della logica, un ciottolino può diventare un macigno o viceversa: è questa la nostra possibilità di portare la realtà, scoprendone la poesia e la verità? Questo è uno degli effetti della metamorfosi della nostra mente. Che sia questo l’unico potere magico dell’uomo? Per cui la parola ci riconduce, nella sua origine oscura, al mistero? Questa è l’arte greco-latina, di prosa e di poesia, questa è la nostra civiltà; da millenni.
Nel 1930, sulla <<Gazzetta del Popolo>>, Ungaretti afferma:
“Pensavo alla memoria, e non potevo non essere ingiusto col sogno. In verità non era ingiustizia; ma la persuasione, che stava maturandosi in me, che la poesia italiana non fiorisce se non in uno stato di perfetta lucidià: tecnica, sensazioni, logica, sogno o fantasia e sentimento: tutte queste cose per noi non hanno senso se simultaneamente non vivano oggettivate per un poeta, in una parola che canti”.
La memoria, in questo senso, ha una funzione chiarificatrice e a tal proposito Ungaretti ammette di aver commesso un errore quando ha detto che in Dostoevskij non c’era se non un fantasma che diventava turba per potenza allucinante di chi scrive. C’è davvero una turba, ma non di fantasmi, bensì di cuori sofferenti. Da qui Ungaretti inizia il suo esame di coscienza tra inquietudini e perplessità come dimostra Inno alla Pietà; per il poeta si tratta ora di spalancare gli occhi impauriti davanti alla crisi di un linguaggio, di cercare nel valore di una parola. Secondo lui, infatti ogni uomo moderno dovrebbe riconciliare il vero con il mistero. Dunque, questa è stata la prima preoccupazione del poeta di oggi: la riconquista del ritmo per risvegliare l’innocenza e per fare ciò è necessario recuperare la memoria. Ma cosa sono i ritmi nel verso? Ce lo dice lo stesso Ungaretti:
“Sono gli spettri d’un corpo che accompagni danzando il grido di un’anima”.
Il poeta moderno possiede il senso acuto della natura, ha partecipato e partecipa agli eventi più tremendi della storia, ha imparato ciò che vale l’istante nel quale conta solo l’istinto. La poesia è una forma estremamente sintetica per natura e i mezzi che l’uomo utilizza per arrivare ad essa sono sempre infelici mettendo insieme immagini lontane tra loro.
Il pensiero di Ungaretti sul significato della poesia si va via via ampliando e definendo negli anni come dimostrano le raccolte del grande poeta , subendo delle revisioni. Ungaretti perviene alla convinzione che in arte conta il miracolo, che la parola ha un valore sacro. Il sentimento dell’ Allegria dà conferma al poeta che non si ha nozione di libertà se non per l’atto poetico che ci dà a sua volta nozione di Dio. Ma il linguaggio di cui l’uomo si serve nella sua fase terrena può contenere una qualche rivelazione facendoci andare oltre la storia? Tale questione, che si era posta Vico e Leopardi (al quale Ungaretti fa spesso riferimento), dovrebbero porsela tutti gli aspiranti poeti.
Tuttavia di una cosa possiamo esser certi: la vera poesia si presenta prima di tutto a noi nella sua segretezza.