Oggi l'aria era un po' grigia, un po' azzurra. Sembrava intessuta di fili caldi lanosi. Un tartan scozzese.
O una gabardina, come direbbero a Prato.
E tutta l'erba che c'era era verde ma verde ma verde, anche sotto le ombre, anche sotto un'arietta tesa che ti scompigliava lo stomaco, nel dopopranzo.
Un pranzo coi compagni di classe dell'uomo piccolo e rispettivi genitori. Una giornata passata a rincorrere bambini che rincorrono un pallone. Come non capitava da anni (e chissà che tante malinconie di questo periodo non siano il termometro di mie rimembranze), di sudare e ridere e capitombolare sopra una sfera di gomma, un po' sgonfia.
Una sintonia di sentimenti, un festival di sguardi, la fiera delle espressioni facciali, delle frustrazioni per aver mancato un tiro, dei bronci per un passaggio non ricevuto. Delle terribili lacrime se non ti fanno rimettere dal fondo, coi piedi, come vuoi tu mica come dettano le regole.
E le grida e le risate, e l'apprensione ogni volta che un paio di quei campioni collidevano, come stelle ad un incrocio senza semaforo, nell'universo.
"Come va"?
"Tutto bene", e si tirano sù, infrangibili. Oppure "mi fa male" e giù manfrine tanto fatali quanto fasulle. Un massaggino (altrettanto fasullo) e si rimettono in piedi.
Insomma, un giorno-bambino, un tempo d'altro tempo, quell'aria che mi sferzava il sudore sulla schiena, nel cuore. E il fiatone, quello sì per la corsa, la fatica, lo sforzo.
E abbiamo pure pareggiato.
Quanto ho riso.