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GLI “AFFARI DI CUORE ” DI PAOLO RUFFILLI. Sogni e materia dell’amore. Saggio di Giuseppe Panella

Creato il 25 settembre 2013 da Retroguardia
 Barricate_Cop08_dgt«Per pronunciare davvero il sublime, penso che occorra partire dal calco, dall’orma, da una traccia sottile. Per una legge dell’inversamente proporzionale: quanto più è basso il tono, tanto più alto è l’effetto. Non è che intenda, per carità, rinunciare alla “grandezza” delle cose. Ma trovo giusto rilevarla nella loro “piccolezza”. E mi piace soffiarci dentro quell’arietta frizzante che fa, del castello di Atlante, l’attracco delle astronavi per il resto dell’universo» (Paolo Ruffilli, Appunti per una ipotesi di poetica).

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di Giuseppe Panella

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GLI “AFFARI DI CUORE ” DI PAOLO RUFFILLI. Sogni e materia dell’amore

1. Ruffilli, ieri

Fin dalla sua prima opera (La quercia delle gazze, Forlì, Editrice Forum, 1972), la sostanza trasversale della scelta lirica di Paolo Ruffilli è ben chiara al suo lettore: dal suo viaggio in Grecia, apparentemente legato e frutto di una temperie spirituale di tipo romantico, il poeta ricava la convinzione che il mito non è più sostanza delle cose e di esso non si può fare che uno scavo interno, critica immanente e devastata, definizione archeologica del passato che è inerte nel presente. Ma già dal suo secondo libro (Quattro quarti di luna, sempre Forum di Forlì – l’anno è il 1974), i tempi ritmici e le cadenze toniche della sua poesia mutano. Non bisogna dimenticare, infatti, che il libro di poesia italiana più amata dal poeta trevigiano  resta (e resterà indenne nel tempo) proprio Satura di Eugenio Montale, la raccolta che segnò il ritorno di quest’ultimo alla poesia e uno dei testi più discussi e contrastati del suo percorso poetico. Non a caso è proprio in questo volume montaliano tardo che, a differenza degli episodi precedenti della sua storia lirica, avviene l’abbandono del linguaggio più rarefatto e linguisticamente alto delle opere precedenti a favore di uno stile più orientato verso il parlato e il quotidiano – uno “spartiacque” della poesia del Novecento, come dichiara autorevolmente anche Daniele Maria Pegorari, nella sua Introduzione al bel volume di Giovanni Inzerillo, l’unico finora dedicato a Ruffilli (La virtù della frivolezza. Saggio sull’opera di Paolo Ruffilli,  Bari, Stilo Editrice, 2009) e suo mentore editoriale.

Anche Ruffilli si ritrova in questo impasto di tipo linguistico e morale e sia questo volume che il successivo (Notizie dalle Esperidi, sempre Forlì, Forum Editoriale ma 1976) ne fa tesoro. Sicuramente nel terzo volume di liriche predomina un tono e un taglio di tipo memoriale-rievocativo che possono far pensare a una rinnovata frequentazione dell’opera di Marcel Proust  (le fotografie che sono il punto di partenza della rievocazione e del ricordo) ma anche nella sua seconda opera, il taglio era stato assai più scabro, “pietroso” e spesso minaccioso (il richiamo è a certi versi decisamente efficaci perché “antipoetici” della prima fase letteraria di Cesare Pavese) rispetto alle poesie più “liricistiche” d’esordio.

Tra Notizie dalle Esperidi e Piccola colazione (uscito presso Garzanti di Milano – il libro vinse il prestigioso American Poetry Prize nel 1996), intercorrono quasi undici anni. Il tempo di passaggio è stato fondamentale per Ruffilli: da un lato, si è dedicato a una proficua e abbondante attività giornalistica ed editoriale (introduce per I Grandi Libri Garzanti testi decisivi come le Operette morali di Leopardi, le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo e il Viaggio sentimentale di Laurence Sterne tradotto da Ugo Foscolo), dall’altra svolge un’intensa attività critica su riviste e giornali.

Piccola colazione rappresenta, tuttavia, un salto di qualità anche nel genere prescelto – oscilla, infatti, tra il “romanzo di formazione in versi” o la “commedia in sei atti” (così la definì Giancarlo Pontiggia nella sua Prefazione al libro) ed è difficile inquadrarlo in una dimensione precisa che non sia quella tutta personale del confronto esplicito con se stesso e con la sua precedente coscienza inquieta. I sei momenti in cui il libro è suddiviso corrispondono ad altrettanti episodi larvatamente autobiografici ma conditi con una dose massiccia di auto-ironia e di un pessimismo spiazzante lasciata però circolare da un intervento esterno che può essere ricondotto all’antica funzione del Coro nel teatro classico.

Piccola colazione rappresenta, allora, una sorta di ripartenza molto importante per la poesia di Ruffilli che con il suo successivo Diario di Normandia del 1990 (pubblicato dalle edizioni Amadeus di Montebelluna) conquista il Premio Eugenio Montale. Il libro è costituito da un lungo racconto in versi di un viaggio soprattutto avvenuto all’interno di se stesso, dove a divagazioni esistenziali si sovrappongono riflessioni di carattere più generale in un ondeggiare tra scarto autobiografico e un tratto più universalistico e concettuale, il tutto con un ritmo musicalmente più scandito e più appoggiato dal punto di vista del metro utilizzato.

Rispetto a Piccola colazione, il linguaggio è più formalmente appoggiato ai modelli della lirica tradizionalmente più accettata, anche se l’ironia del testo è certo più spiazzante.

Del 1992 è, invece, Camera oscura con cui Ruffilli torna a pubblicare presso Garzanti.

Il tema è, ovviamente, quello della fotografia (come lo stesso titolo allude con evidente insistenza) e sembrerebbe un ritorno indietro all’epoca di Notizie dalle Esperidi del 1976. Il tono, tuttavia, è assai più radicale e, soprattutto, meno intimistico. Trentadue fotografie mescolate a poesie e intervallate a otto riflessioni più un prologo e un epilogo in versi sono il frutto della lunga gestazione di questo libro che cerca di conciliare il ricordo visivo con la carica mentale dell’oblio che vorrebbe prevalere su di esso. Memoria e dimenticanza sono così fuse insieme.

Il connubio tra poesia e fotografia presiede anche a Nuvole in cui alle poesie di Ruffilli si confrontano le fotografie molto suggestive di Fulvio Roiter nel tentativo di catturare attraverso le parole e la luce impressionata su pellicola la dinamica inarrestabile e frattale delle nuvole in viaggio.

Il passaggio all’editore Marsilio di Venezia è scandito, invece, dalla pubblicazione di La gioia e il lutto del 2001. In esso il racconto della morte di un giovane malato di AIDS si intreccia con le vicende dei suoi familiari nonché dei suoi dottori e qualche amico a conoscenza della vicenda.

Al giovane morente di AIDS è dedicata una commossa riflessione sulla morte e sulla non-vita come condizione di transito tra una realtà che ormai sfugge e una possibile permanenza in un futuro aldilà di cui però non è ovviamente data alcuna certezza.

Il drogato e il carcerato, simboli della passione contemporanea, saranno infine i protagonisti della penultima silloge poetica di Ruffilli (Le stanze del cielo, Venezia, Marsilio, 2008) mentre la sua prima prova in prosa (la raccolta di racconti Preparativi per la partenza, Venezia, Marsilio, 2003) sintetizza sulla carta umori e propositi (rimasti fino ad allora inediti) in una dimensione più distesa e più propensa allo scatto critico e polemico nei confronti della contemporaneità.

Il tema della morte, già testato efficacemente come punto di riferimento tematico in La gioia e il lutto, si rivela anche qui il motore immobile della proposta esistenziale del poeta nei confronti di un’umanità ormai incapace di porsi nella prospettiva di una sintesi futura di nuove visioni del mondo e dell’esistenza.

A questo libro seguiranno due altre proposte in prosa (Un’altra vita, Roma, Fazi, 2011, che è ancora una raccolta di racconti, la sua seconda, e L’isola e il sogno, Roma, Fazi, 2011, biografia romanzata di Ippolito Nievo, un autore particolarmente caro a Ruffilli che gli aveva dedicato già nel 1991 un altro testo tra il narrativo e il saggistico, Vita di Ippolito Nievo, Milano, Camunia Editrice, 1991 e aveva anche curato, nel 1984 – come si è accennato – l’edizione per i Grandi Libri Garzanti delle Confessioni di un italiano dello scrittore di Padova).

Per una visione d’assieme della sua opera, il libro di Giovanni Inzerillo sopra citato resta, anche dopo il recente intensificarsi della produzione letteraria di Ruffilli, un testo di grande utilità nell’analizzare e costruire ipotesi interpretative interessanti riguardo la nascita e lo sviluppo intellettuale e morale del mondo del poeta di Treviso. Le sue conclusioni sono, di conseguenza, utili e più che accettabili sul piano ermeneutico:

«Così, nell’opera di Paolo Ruffilli, la difficoltà comunicativa si trasforma in un dettato minimale; la sua poesia si struttura attraverso un silenzio necessario, e comunque espresso, in cui consiste l’indicibilità dell’esistenza. Il “termine” è “ridotto all’incredibile” e il dire si pone “come dato impossibile”. Il modello più vicino è quello montaliano di Satura, limpido, scorrevole, a volte persino spregiudicato. Comunemente alle teorie di Barthes, solo nel grado zero della scrittura il dire lirico è concepibile: manierati costrutti sono, viceversa, un tentativo di conservatorismo mussale o semplicemente ridicolo. La poesia di Ruffilli obbedisce, pertanto, a un dettato minimalista, a una “frivolezza” che, partendo dalle piccole cose, tenta di significare il sublime» (scrive, infatti, lo studioso palermitano a p. 157 del suo ampio volume).

Ma forse Ruffilli riserva altre sorprese letterarie al suo lettore ideale come gli Affari di cuore cui  bisognava ormai arrivare, dimostrano ampiamente.

2. Ruffilli, ora

 

Affari di cuore viene edito da Einaudi di Torino nella prestigiosa Collana Bianca di poesia. Il particolare non è indifferente o minore perché è il segno di una consacrazione “ufficiale” di Ruffilli al rango di poeta di alto livello (non si intende certo così svalutare la precedente produzione del poeta di Treviso ma questo approdo mi pare significativo).

Ad esso ha già fatto seguito un nuovo volume (Natura morta, Torino, Nino Aragno, 2012) che ne prosegue il discorso linguistico e di poetica, anche se risulta più legato alla produzione precedente.

Affari di cuore, allora, merita un discorso a parte proprio per la peculiarità del suo dettato lessicale e per il taglio letterario che inevitabilmente assume con la sua proposta di poetica.

Infatti, il libro, con il suo stile piano e privilegiatamene quotidiano, sembrerebbe tutt’altro che sublime e liricamente classico. La “materia d’amore” vi è trattata in modo tutt’affatto singolare.

Sorprende ad esempio l’abbondanza degli esergo che aprono il volumetto di versi. A parte una lunga citazione da Il lupo della steppa di Hermann Hesse (un luogo del romanzo in cui Harry Haller ritrova magicamente sullo schermo del “cinema naturale” in cui si è recato tutte le donne della sua vita, dalle più fuggevoli a quelle più significative), le successive tre riprese da opere altrui (da Lao-Tzû, Ludwig Wittgenstein e Marianne Moore) colpiscono per l’accuratezza della scelta e la natura propizia e “giudiziosa” del loro “accoppiamento”. In particolare, la dichiarazione tratta dal Tao-te-King di Lao Tzû (è noto che Ruffilli ha tradotto la Regola celeste del Tao per Rizzoli nel 2004) è particolarmente bella, di grande struggenza ecumenica: “Che conta conoscere il mondo, se non lo ami”. Più che un riferimento sapienziale, è un progetto di poetica.

Anche se come in tutti i “canzonieri d’amore” che si rispettino, il riferimento di Ruffilli è sicuramente a una reale e concreta donna amata (anche se talvolta soggetta a un risentimento psicologico che può sfiorare la crudeltà, come rivelava Marianne Moore nel quarto esergo del libro), il nome di essa non viene mai fatto, neppure sotto forma di senhal provenzal-stilnovistico, anche perché non c’è nulla della tradizione dell’”amor cortese” in questo testo in cui solo di amore si vorrebbe parlare. Basterebbe il breve lacerto lirico intitolato Le unghie e i denti a dimostrarlo:

“Sono tornato solo / per morderti e graffiarti / e per colpire /a schiaffi e pugni / la tua carne / e farti usare / infine su di me / le unghie e i denti. / Che siano ancora / più evidenti / le facce del dolore / nei segni e nelle tracce / di lividi e rossore / delle tue ire, / porte aperte / della spinta urgente / a resuscitare / da questo mio morire” (p. 92).

Solo in qualche breve squarcio, quasi una disattenzione dell’autore, si accenna a una persona concreta con caratteristiche fisiche ben precise e con lineamenti somatici che si imprimono nella memoria del lettore più attento:

Pensiero.  Stavo per cedere / al sorriso / più che al mito / del tuo sangue slavo, / ma poi qualcosa / mi ha ripreso: / il tempo di uno sguardo / forse disatteso, / un moto vago / del tuo naso / imperioso e risoluto / nel tenermi a vista. / Fino al pensiero / pensato e sottinteso / – di certo feticista – / che molto mi è piaciuto / di essere la preda / di una tua conquista“ (p. 119).

Eppure non si sfugge alla sensazione che vi si tratti anche d’altro e che vi si tratti di questioni più generali e più ampie di un puro referto autobiografico o di un’evocazione di preferenze personali.

Non è un caso che il libro si intitoli Affari di cuore: dove al cuore, privilegiata rima con l’amore (per dirla con un celebre verso di Saba) si accoppiano gli affari, termine che qui mi pare più usato nell’accezione francese di “caso giudiziario clamoroso” o di “vicenda controversa e contraddittoria” che in quella più pacificata legata alla dizione anglosassone del termine.

Gli “affari di cuore” sono problematici sempre e l’amore non è mai semplice e lineare come gli amanti vorrebbero che fosse. C’è sempre qualcuno che ama di più o di meno e la pacifica eguaglianza dei sentimenti non si sposa mai al perturbante prevalere di amore e contesa (come già ben sapeva il presocratico Empedocle). Non solo: ma anche amare qualcuno è complicato se quel qualcuno non vuole farsi amare o rifugge al concedersi o si comporta con chi lo ama come il gatto fa con il topo. Tutte le gamme possibili di questo eterno movimento psicologico, di questo gioco eterno ma sempre rinnovatesi tra ripulsa e cedimento sono ampiamente e abilmente descritte nel libro di Ruffilli. E’ come se il poeta trevigiano avesse voluto descrivere tutti i moti del sentimento d’amore e si fosse servito come di un Baedeker per le faccende amorose dello sperimentato De l’amour di Stendhal. Solo che qui c’è qualcosa in più anche rispetto allo scrittore di Grenoble: c’è il sesso (mai descritto esplicitamente, sempre accennato con un po’ di cautela espositiva, ma ben presente). Viene in mente uno scritto considerato “minore” di Ippolito Nievo : proprio l’incompiuto Antiafrodisiaco per l’amor platonico redatto contro la “Morosina” Matilde Ferrari, ben diversa dal successivo Angelo di bontà, il quale, pur avendo venature scherzose e volutamente esibite come un gioco letterario, coglie bene la rabbia e lo sconcerto del rifiuto amoroso e del sospetto del tradimento. Analoghe venature mi pare che compaiano anche in qualche testo della raccolta, dove il gioco del darsi e del negarsi è spinto al parossismo della finzione esplicita per quanto riguarda il piacere che si ricava nel dolore e il dolore necessario al raggiungimento del piacere impellente:

Finzione. Sei tu che / mi hai cacciato / fingendo di essere la preda / e nel mio prenderti / mi hai catturato, sì, / mi hai messo alla catena: / io sono il cane / e tu la iena. / Decidi i tempi / e le occasioni, / fingendo / di farmi concessioni. / Mi hai chiesto / e l’hai preteso / a più non posso / di metterti / le mani addosso. / Ma le mie mani / sono la fonte / delle lesioni / su di me percosso” (p. 101).

Ma soprattutto tutto sembra vada riportato nel luogo deputato all’amore e al suo compimento: la battaglia combattuta dai sessi trova nel letto il suo luogo deputato. Ruffilli lo afferma fin dall’inizio, con una punta di compiacimento e un momento di abbandono.

Le “soffici battaglie” che vi si combattono sono fatte di abbandoni e di puntigli, di concessioni totali e di ripulse inspiegabili, di rabbia e di languore, di tenerezza e di volontà di predominio.

L’amore è fatto di queste ripetute oscillazioni, di queste contraddizioni veementi, di morti e resurrezioni consapevoli e costanti, di felicità contrastata e di infelicità conclamata e ricorrente.

Ruffilli non si risparmia e ripercorre tutti i topoi che gli sembrano essenziali nella ricostruzione del fenomeno analizzato: da Paolo e Francesco “sospesi nell’aer” dell’ Inferno dantesco al sonno come rifugio dell’innamorato infelice (da La signora con il cagnolino di Cechov al Peter Ibbetson interpretato da Gary Cooper in un film di Henry Hathaway del 1935 che tanto piaceva ai surrealisti della scuola di Breton che lo consideravano un esempio calzante della loro poetica).

Ma quello che colpisce nel libro non è tanto la novità della materia trattata (certamente eterna quanto il mondo) quanto il modo e il linguaggio con cui essa viene (wittgensteinamente!) detta ed elaborata. Di ciò è consapevole certo il suo stesso autore:

Tutto il contrario. E mentre vai dicendo / che non è giusto, / che non c’è niente / da fare / per noi due / e ci dobbiamo / per forza separare, / lo so che stai mentendo / e sento / che non credi / neppure a una parola / e vuoi che ti risponda / che non è vero, / affogando la tua / nella mia carne / cucita e abbottonata, / che non rimanga / nessuna parte di te / da me scollata: / a fondo e per intero / tutta completamente a me / inchiodata” (p. 107).

Così l’amore dice tutto di sé, si rivela, si denuda e poi si nasconde; ama mascherarsi dietro il languore degli affetti per difendersi dai possibili attacchi mortali e dalle ferite che la negazione da parte dell’altro produce o occultare il desiderio sessuale con l’esibirlo per non farne emergere l’importanza o la necessità. “La donna si nega concedendosi” – ha scritto Yasunari Kawabata in La croce buddista, ma è un detto che vale certo anche per gli uomini. Vale certamente per i poeti-amanti per i quali le parole sono strumento di seduzione e di conquista ma finiscono per rovesciarsi nell’unica possibile consolazione accettabile. Scrivere l’amore non equivale a farlo – ma spesso non se ne può fare a meno.

Secoli e secoli di letteratura sono lì a dimostrarlo.

 

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GLI “AFFARI DI CUORE ” DI PAOLO RUFFILLI. Sogni e materia dell’amore. Saggio di Giuseppe Panella
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