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È l’umore di chi la guarda che dà alla città di Zemrude la sua forma. Se ci passi fischiettando, a naso librato dietro al fischio, la conoscerai di sotto in su: davanzali, tende che sventolano, zampilli. Se ci cammini col mento sul petto, con le unghie ficcate nelle palme, i tuoi sguardi s’impiglieranno raso terra, nei rigagnoli, i tombini, le resche di pesce, la cartaccia. Non puoi dire che un aspetto della città sia più vero dell’altro, però della Zemrude d’in su senti parlare soprattutto da chi se la ricorda affondando nella Zemrude d'in giù, percorrendo tutti i giorni gli stessi tratti di strada e ritrovando al mattino il malumore del giorno prima incrostato a piè dei muri. Per tutti presto o tardi viene il giorno in cui abbassiamo lo sguardo lungo i tubi delle grondaie e non riusciamo più a staccarlo dal selciato. Il caso inverso non è escluso, ma è più raro: perciò continuiamo a girare per le vie di Zemrude con gli occhi che ormai scavano sotto alle cantine, alle fondamenta, ai pozzi.
Italo Calvino – Le Città Invisibili – Le città e gli occhi, 2
La musica è fatta per essere ascoltata. E’ fatta per le orecchie. Una considerazione talmente elementare che spesso si finisce per scordarsene. Quello che percepiamo come melodia, armonia, da cui traiamo piacere o disgusto, eccitazione o malinconia, è una complessa rielaborazione che il nostro cervello fa di onde sonore su cui, di volta in volta, si innestano memorie, desideri, stati d’animo. Può diventare difficile riconoscere il mero dato “fisico” sotto questi strati di personale esperienza. Qui sta insito il piccolo paradosso, l’arbitrarietà, tutta l’approssimazione dello scrivere e del parlare di musica attraverso gli strumenti della lingua. Posso utilizzare le parole per descrivere una canzone come viene percepita e rielaborata dalla mia testa. Ma quanto succede nei miei timpani resta ad un livello “subliminale”, inconscio, istintivo e sensoriale piuttosto che razionale o mnemonico. Sarebbe bello potere scrutare una canzone con le orecchie. Fissarla, dal basso all’alto, osservarla punto per punto. Scavarla con l’udito, penetrarla nelle sue più intime pieghe risonanti, così come faccio di un dipinto con gli occhi. Ma la canzone non è un quadro. Tanto quello rimane fermo, tanto lei scorre; il tempo non si congela e ci scivola via tra le mani più svelto dell’acqua e dell’aria.
Potrebbero esserci album fatti solo per le orecchie?
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