Gli angeli del basket

Creato il 29 maggio 2012 da Alextog @sandratognarini

Gli angeli esistono. Ciascuno di noi, incrociando un’altra vita, può trasformarsi in un angelo, che non è banalmente il “buon samaritano” di evangelica memoria che dà una mano e poi se ne va per la sua strada, ma qualcuno che stabilisce una connessione tra le vite di persone prima ignare l’una dell’altra. Il suo ruolo, si direbbe in lingua inglese, è quello di “hub” (nodo). E diventare un hub e rimanerlo per sempre è un arricchimento per la propria esistenza e per quella degli altri.

La storia che stiamo per raccontare può essere divisa in tre parti: il successo, la caduta e la rinascita. Il protagonista è l’americano Abdul Qadir Jeelani, famoso giocatore di basket degli anni ’80. In Italia, con l’intermezzo di un biennio nella lega professionistica statunitense NBA, fece le fortune della Lazio Basket e della Libertas Livorno. Dopo aver chiuso la carriera in Spagna, tornò a fine anni ’80 negli Stati Uniti, ma una serie di problemi familiari e di salute lo portò alla condizione di “senzatetto”. Trovò ospitalità nel centro Halo (organizzazione di assistenza agli “homeless”) della città natale, Racine nel Wisconsin.

Molti anni dopo, un bresciano che si trovava in trasferta di lavoro a Racine e faceva volontariato proprio in quel centro, lo riconobbe. C’era già Facebook e il manager italiano lanciò subito un appello sul social network al fine di dare una mano al vecchio campione. Alcuni fans scrissero alla Halo per chiedere notizie di Jeelani e organizzare una raccolta di fondi. Già una bella storia, che fu raccontata da Andrea Barocci, giornalista del Corriere dello Sport.

Ma il più doveva ancora arrivare. Una mattina, in un bar di Roma, il presidente della Lazio Basket Simone Santi stava facendo colazione, sfogliando il Corriere dello Sport. Legge l’articolo di Barocci e si ricorda di Jeelani: quando era piccolo e il campione si chiamava ancora Gary Cole (prima della conversione all’Islam) ne aveva ammirato le imprese al palazzetto di viale Tiziano.

Il presidente della Lazio Basket è amministratore delegato della Leonardo Business Consulting (che favorisce il commercio estero di imprese italiane), console onorario a Milano del Mozambico e finanziatore di due orfanotrofi proprio nel paese africano, dove viene insegnato basket a bambini e bambine dai 6 ai 14 anni. Nel Lazio, poi, gestisce dodici centri di avviamento al basket con 600 ragazzini di 27 nazionalità diverse.

Ma torniamo in quel bar dove Simone Santi aveva finito il suo caffè. Torna di corsa in ufficio e riesce a trovare il numero di telefono del centro Halo di Racine. Parla con il responsabile, che avverte Abdul. Jeelani chiama suo figlio Azim e insieme aspettano la nuova chiamata dall’Italia: «Sono Simone Santi, presidente della Lazio Basket…». Il resto della telefonata contiene uno squarcio di futuro, la visione di un progetto importante, la proposta di insegnare basket ai ragazzini del progetto “Colors”, che unisce i centri in Italia e in Mozambico.

Abdul Jeelani, accompagnato dal figlio Azim, torna in Italia il 14 gennaio 2011, accolto dall’ex avversario Dino Meneghin, ora presidente della Federazione Italiana Basket.

Passa qualche mese. Siamo al 29 giugno dell’anno scorso, a Viareggio. L’editore Gian Luca Muglia, nella ricorrenza della strage alla stazione ferroviaria, fa tardi a lavoro e decide di non andare al corteo di commemorazione, ma direttamente a casa a seguire la diretta su un canale locale. Durante gli spot pubblicitari, fa zapping. Su Italia 1, Marco Berry presenta la trasmissione “Invincibili”. Muglia sceglie di seguire la puntata. Dopo alcuni minuti, è in programma un’intervista ad Abdul Jeelani e Simone Santi. L’editore si appassiona alla vicenda: «Mentre finisco di guardare la trasmissione, ormai in preda a un’emozione forte, comincio a fare castelli di sabbia, vorrei pubblicare un libro su Abdul e la sua storia». La mattina successiva cerca Simone Santi su Facebook: dopo pochi minuti, viene stabilito il contatto. Incoraggiato dalla disponibilità, Muglia gli scrive per spiegare la sua volontà di pubblicare un libro su Abdul. Che è stato stampato a novembre.

Intanto, prima del ritorno di Jeelani in Italia, per le ragazze mozambicane coinvolte nel progetto “Colors” era già successo un piccolo miracolo: Simone Santi le aveva presentate a Clarisse Machanguana, la più famosa giocatrice di basket del Mozambico che, dopo campionati giocati in Portogallo, Spagna, Francia e persino nella NBA femminile americana, si era trasferita in Italia. Le ragazze erano rimaste colpite soprattutto da una sua frase: «Ricordate che nella vita incontrerete molte persone. Non guardate come sono vestite o qual è il loro aspetto. Non fermatevi a questo. Uno di loro potrebbe essere un angelo, che vi apre una porta per la vostra vita».

A Regina, una delle ragazzine “Colors”, la frase di Clarisse tornava spesso in mente. Un giorno, poi, durante l’allenamento percepì più di altre volte l’attenzione del coach nei suoi confronti. Alla fine, mentre le altre compagne andavano sotto la doccia, l’allenatore decise che era giunto il momento di parlarle: «Ti ricordi di Clarisse? Ha ricevuto l’incarico da Università e club della WNBA di selezionare giovani giocatrici africane meritevoli di ricevere borse di studio per giocare in America». Clarisse Machanguana ne aveva parlato con Simone Santi e lui, a sua volta, con il coach. Tutti avevano convenuto sull’opportunità di proporre a Regina questo stage sportivo negli Stati Uniti.

Ma prima bisognava prepararsi molto bene. E il tutor di Regina per aprirle le porte dell’America arrivava a Maputo dall’Italia: Abdul Jeelani. La presenza del campione ritrovato non ha fatto bene soltanto a Regina, ma anche alle altre ragazze del centro sportivo. Tutta Maputo al corrente del sogno di una sua piccola figlia, un grande abbraccio popolare attorno alle ragazze. Il momento di partire, negli Stati Uniti cominciavano i provini. E poi quella sera, Abdul e Regina, a camminare per un po’ sul parquet del Madison Square Garden due ore prima della partita. E un tuffo al cuore a sentire l’eco del respiro in quel tempio dello sport.

«Guardo il tabellone, i secondi corrono, il difensore non è vicino, corre verso di me. E anche se il canestro sembra molto lontano, nelle mie mani, finalmente, c’è l’istante della felicità. E io lo so che oggi posso farlo». L’ha detto Regina, è tornato a dirlo Abdul Jeelani, lo diciamo tutti noi che, ogni giorno, possiamo essere degli angeli. E volare insieme.

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