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Gli angeli di Arturo, carpentiere marocchino

Creato il 05 maggio 2011 da Cultura Salentina
Pasquale Urso: Lavoro nel vicolo (Acquatinta)

Pasquale Urso: Lavoro nel vicolo (Acquatinta)

Quella di Arturo è una storia di solitudine e di malattia, ma anche di speranza, perché esistono ancora esseri umani in grado di vincere la battaglia contro l’incapacità di con-dividere le sofferenze delle persone fragili (specie se di lingua e razza diverse dalla nostra), demolendo quel muro di incomunicabilità che ci separa dagli altri e deforma la realtà fino a non farci cogliere le disperate grida d’aiuto di chi soffre. Don Tonino Bello diceva: “La condivisione è la capacità di accorgersi dei poveri e dei sofferenti”.

Parla di bieco opportunismo ipocrita, ma anche d’amore crostallino e di solidarietà spontanea. È la storia di un ragazzo marocchino, Mohamed, giunto profugo in Italia, come tanti altri, da “clandestino”, ma poi “regolarizzato” e integrato a tal punto da essere noto, nel suo borgo di residenza della Valle d’Itria, come Arturo, aiuto falegname della più antica bottega di falegnameria dell’intera valle. Sempre disponibile in qualsiasi ora del giorno, non solo per far soldi, ma anche per una grande passione per il lavoro e per congenito altruismo.

In quel villaggio, Arturo vive da solo, in un piccolo ed umido tugurio di tre metri per tre, con i servizi igienici all’esterno, nel giardino, ma tutto questo non gli pesa, perché lo sorregge l’incrollabile speranza di far soldi a sufficienza per poter vivere con l’amata Suha che non si stanca di cercare nella calotta celeste, puntando lo sguardo in direzione del tramonto.

I giorni si succedono sempre uguali: otto, dieci, a volte persino dodici di lavoro al giorno non lo spaventano affatto, anzi gli danno la forza per guardare al futuro con grande serenità e speranza: “Mia dolce amata, verrà molto presto il giorno in cui potrò farti venire e vivere accanto a te. Oggi ho visto un appartamentino, che mi è sembrato davvero adatto a noi” – le scrive, alla luce fioca dell’abat-jour, in una serata gelida, neppure intiepidita dal braciere acceso.

Ma la lenta, infida combustione del carbone nel braciere impregna la piccola camera di gas tossici, fino a condurre Arturo quasi in fin di vita. Verso le 6 del mattino, il padrone di casa, non avendolo visto ancora in piedi, va a cercarlo e lo trova esanime, privo di coscienza, gli occhi sbarrati, come un morto. La pronta chiamata del 118 gli salva la vita, ma il verdetto appare senza speranza: coma vegetativo o, nella migliore delle ipotesi, tetraplegia irreversibile!
Giorni e giorni in rianimazione con la vita sempre appesa a un filo; poi, dopo qualche settimana, il verdetto definitivo: tetraplegia, con conseguente necessità di trasferimento in lungodegenza e successiva attivazione di un percorso di assistenza domiciliare.

Dopo una “lunga degenza” in lungodegenza, giunge il momento della dimissione ed è in questo frangente che riappare, in tutte le sue mostruose sembianze, quel famelico Homo homini lupus (ma sia chiaro che la locuzione è estensibile anche alle donne) che non ha smesso mai di esistere. E non a caso la disputa sul futuro di Arturo si dipana a cavallo tra i tavoli tecnici, dove si discute animatamente (se non animosamente) sui criteri e sulle varie possibilità e modalità di dimissione, e i pettegolezzi di corridoio, dove si chiosa sulle tante risorse sprecate per assistere quell’essere inerme dalla carnagione di color grigio-fumo.

E comincia a prendere piede e ad affermarsi l’insana idea di “rispedirlo” a casa sua, in Marocco; si sta decidendo, in poche parole, di mandare Arturo incontro a morte certa; ma è a questo punto che compaiono due angeli custodi: Giovanna e Concetta.

Giovanna e Concetta sono due sorelle quarantenni, che hanno avuto modo di conoscere Arturo assistendo i genitori, entrambi ricoverati, ma che anche dopo la loro dimissione hanno continuato a svolgere una costante attività di assistenza in ospedale al povero carpentiere marocchino. Le due ragazze vengono a conoscenza della possibilità che Arturo possa essere “rispedito” a casa sua in Marocco e si rendono conto che quella dimissione selvaggia lo porterebbe a morte certa. Non trovando disponibilità al dialogo, con il solo conforto di una brava dottoressa molto sensibile ai problemi delle persone fragili, decidono di rivolgersi a Luisa, un’agguerrita giornalista dell’agenzia ANSA di Bari.

Di fronte a quell’ostacolo inatteso, i grandi strateghi dell’assistenza pubblica decidono di prender tempo e di far passare la buriana, per poi tornare alla carica, ma nel frattempo Luisa ha smosso mari a monti riuscendo a far venire dal Marocco Kamal, uno dei fratelli di Arturo, al fine di consentire al giovane di avere accanto a sé una persona cara nel corso della sua permanenza in RSA.

Oggi Kamal ha preso stabilmente il posto di aiuto carpentiere che fu del fratello, mentre sua moglie fa la spola tra casa e la RSA, dove Arturo sta lentamente cominciando a riacquistare l’uso, almeno parziale, delle mani e della parola.

Nell’atmosfera di grande letizia per il bell’epilogo della storia non manca però, purtroppo, una piccola nota stonata di volgare opportunismo; infatti, ci ha profondamente ferito la constatazione della tanto inattesa quanto repentina “folgorazione collettiva sulla via di Damasco” dei tanti grandi strateghi dell’assistenza sanitaria pubblica, che da qualche tempo, dimenticando di aver inizialmente condiviso la “condanna a morte” di Arturo, al cospetto delle tante troupe televisive che si sono interessate del caso, si travestono da dottor House e si vantano apertamente e spudoratamente per la splendida soluzione del caso.

Non ci volevo credere, ma ho potuto constatare con i miei occhi che, all’apparire dell’ennesima troupe televisiva, dopo aver quasi sospinto via Giovanna e Concetta, con bronzea faccia di circostanza, un paio di tali strateghe si sono poste ai lati del letto di Arturo e, accarezzandogli dolcemente le mani, hanno bucato lo schermo dichiarando la volontà di far proseguire il percorso assistenziale del ragazzo per tutto il tempo necessario ad una ripresa, almeno parziale, dell’autonomia personale.

Non a caso, tanti giornali hanno riportato la notizia della grande abnegazione di quel team di assistenza, che, in realtà… mah, è meglio tacere! Nessun cenno, invece, per le povere Giovanna e Concetta, che da parte loro sono rimaste ben felici e contente per essere riuscite a salvare l’amico Arturo, al quale continuano a offrire, ancor oggi, assistenza, affetto e calore umano.

Don Tonino Bello diceva che l’uomo è un angelo con una sola ala: può volare solo se abbracciato ad un altro essere umano, che gli fornisce l’ala di riserva. Arturo aveva perduto la sua unica ala, ma Giovanna e Concetta lo hanno preso in mezzo a loro e con l’aiuto delle loro due ali Arturo ha ripreso a volare. Grazie di cuore, ragazze!


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